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Un affare di famiglia di Kore-eda Hirokazu, al cinema la Palma d’Oro 2018

Un affare di famiglia di Kore-eda Hirokazu

Un affare di famiglia di Kore-eda HirokazuUn affare di famiglia di Kore-eda Hirokazu, dal 13 settembre al cinema la Palma d’Oro di Cannes 2018

Nella poetica di Kore-eda la famiglia ha sempre avuto un ruolo centrale: Like Father, Like Son, Nobody Knows, Little Sister, questi solo alcuni dei suoi film più belli, tutti sviluppati attorno a questa tematica. A volte l’ha guardata più da lontano –Afterlife-, di rado se ne è allontanato e alla fine ci torna sempre: con After the Storm, ad esempio, prima dell’intermezzo legal thriller di The Third Murder (in concorso a Venezia 74, ma mai arrivato in Italia) e ora con Shoplifters (che nei cinema esce con il titolo Un affare di famiglia), che ha trionfato a Cannes 2018 vincendo una meritatissima Palma d’Oro. Giuria e critica ne sono state estasiate fin da subito.

>> Dopo uno dei loro furti, Osamu (Lily Franky) e suo figlio Shota, sulla strada di ritorno verso casa, si accorgono di una ragazzina abbandonata su un balcone, in mezzo a un freddo glaciale. Non sapendo cosa fare la portano a casa con loro. Dapprima riluttante ad accoglierla, la moglie di Osamu acconsente a occuparsi della piccola, che entra così a far parte di questa strana famiglia allargata insieme a una nonna al contempo carezzevole e imbrogliona, col vizio del gioco, e a una giovane nipote che arrotonda esibendosi nei peep show.
Tutti assieme vivono in piccolo tugurio stipato di oggetti (oltre che di persone), poveri ma pronti a condividere tutto, anche grandi, indicibili, segreti…

Un affare di famiglia di Kore-eda HirokazuAl centro di Un affare di famiglia troviamo, nuovamente, una famiglia disfunzionale, questa volta però a legare tra loro componenti è il crimine; l’amore vi trova spazio, certo, ma in interstizi sfuggenti, dubbi, inaspettati. Gli “shoplifters” del titolo sono, difatti, letteralmente, taccheggiatori. Quella al centro della pellicola è una famiglia che vive di espedienti, abita in una casa minuscola e si arrabatta tra furtarelli e lavoretti. È una di quelle che il cineasta giapponese ha definito come “famiglie punite”, quelle di cui si legge nella pagine di cronaca dei giornali, ai margini della società.

Non sono scenari nuovi per lui. I protagonisti di quest’ultima opera ricordano, ad esempio, la famiglia poveretta di Like Father, Like Son, che in quel caso era contrapposta a una famiglia “bene”. Lily Franky, non a caso, in entrambi i casi veste i panni del padre un po’ straccione ma benevolo, giocherellone e un po’ (tanto) scapestrato.

Lo sguardo del regista è da sempre attento alle realtà subalterne, in cui gli emarginati sono invisibili finché le istituzioni (e la morale istituzionale) ci sbattono contro. Per caso, normalmente. Proprio come avviene nelle news che si leggono solo sui quotidiani, perché realtà simili vicino a noi non ne se ne vedono – o, come critica il regista, è il ceto borghese che non vuole vedere finché non è costretto a farlo
E questo è esattamente quello che succede anche in Un affare di famiglia, che sembra rappresentare la summa di tutto il lavoro svolto da regista in tutti questi anni (il suo primo lungometraggio di fiction, Maborosi, è dal 1995).Un affare di famiglia di Kore-eda HirokazuÈ un film tenero, commovente, molto poetico, certo, costruito attraverso occhiate e piccoli gesti (uno sguardo registico e autoriale mutuato da, come hanno già detto tutti, Ozu e Naruse), ma anche molto duro, ambiguo.
Kore-eda mette in scena un dramma complesso, stratificato e ricco di sfumature, di dubbi. Alla commozione, sul finale -come conclusione aperta di questa parabola famigliare- cede il passo una pletora di domande, di interrogativi.

Torna la critica alle istituzioni, che non hanno i mezzi per leggere la complessità del reale e il cui limite è rappresentato dalla natura stessa del compito a cui devono far fronte: discernere bene e male. Ma anche la piccola famigliola di poveri ma “felici” non ne esce certo immacolata. Il plot twist al centro della storia non getta luce nuova sull’esistenza di questi sconclusionati protagonisti che, teneramente, si fanno amare fin dalle prime sequenze, ma li copre di ombre e sospetti.
La storia di Shopfilters è la storia stessa del significato di famiglia. Una riflessione sulla natura, labile e mutevole, dei legami.

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