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Martin Romeo

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Bevilacqua La Masa Edition: Palazzo Carminati 2013-2014

Salire gli scalini di Palazzo Carminati è un’impresa. Una volta arrivati alla vetta si viene, però, completamente ripagati della fatica. La Fondazione Bevilacqua La Masa ospita qui sette degli artisti selezionati per lo storico programma di residenze a Venezia.

L’esperienza della residenza alla Fondazione Bevilacqua La Masa ha rappresentato per Martin Romeo (Carrara, 1986; attualmente in residenza artistica a Trani) l’imposizione di una sosta di un anno: «La mia pratica artistica vive del movimento e del cambiamento, che è una necessità. Dopo Venezia, sarò in Cina, all’Inside-Out Art Museum di Pechino».

Il movimento è un elemento chiave del tuo lavoro: sia quando si tratta di installazioni interattive, che impongono un’azione dello spettatore, sia nel caso degli spettacoli teatrali, performance in bilico tra più forme artistiche. Non c’è una distinzione netta o una gerarchia tra i diversi mezzi o tra arti visive e arti performative.
«Sono partito dalla pittura per arrivare a usare nuovi mezzi tecnologici, ma la mia ricerca è sempre sul corpo, sulla luce. Ho cambiato strumento grazie all’incontro con Klaus Obermaier, di cui sono stato assistente. Questo passaggio, la mia scelta, può apparire come radicale, ma si è sviluppato in modo naturale».

Oltre all’interdisciplinarità, il tuo lavoro si nutre della partecipazione attiva del pubblico, visto che molte installazioni sono interattive.
«Sì. Ho recentemente riproposto a Nova Gorica, alla Galleria Mestna, un progetto del 2011, “Il luogo si fa spazio”: si tratta di una proiezione che viene composta dal visitatore attraverso la pressione di alcuni pulsanti posizionati sul pavimento e mimetizzati come fogli di carta. Calpestandoli è possibile selezionare un paesaggio degradato di Porto Marghera e inserirvi una serie di personaggi ad animarlo. Ogni volta viene composta una storia diversa. Anche in altri lavori la presenza del pubblico è essenziale per l’attivazione del meccanismo. La storia esiste solo nel momento in cui qualcuno la ascolta o la guarda. In “Peep”, per esempio, era lo spettatore a determinare il video da proiettare attraverso il movimento di un tubo al neon di colore diverso, che faceva, per un attimo, condividere lo spazio con altre situazioni, quelle nel video. È un progetto che voglio riprendere: il mio lavoro ha la caratteristica di adattarsi allo spazio facilmente, grazie al fatto che si basa sul software, sulla luce e sui moduli, tutto in live».

In questo senso lo consideri scultoreo, più che video?
«Sì. Si tratta di scultura flessibile, in grado di integrarsi e relazionarsi al supporto e alla superficie».

Dal punto di vista tecnico, crei tutto autonomamente. Quali sono le difficoltà maggiori che incontri?
«Oltre alla vendibilità e alla manutenzione, l’elemento più impegnativo è proprio l’interattività: l’imprevedibilità del comportamento della massa è un punto di debolezza che può compromettere la riuscita del lavoro».

A teatro, invece, questo non accade, perché come regista hai tutto sotto controllo per una durata di tempo limitata, quella dello spettacolo.
«Anche in questo caso il corpo è il nucleo. Sono spettacoli di danza interattiva, in cui luce e colori dialogano attivamente con i ballerini sul palcoscenico».

Sei anche il fondatore di Toolkit Festival. Di che cosa si tratta?
«Ho ideato il festival nel 2011, per fornire un’occasione di incontro e di esposizione agli artisti che utilizzano la tecnologia e l’interattività. Tutto ruota intorno alla mostra, che viene accompagnata da spettacoli di intrattenimento serali. Vuole mettere in luce la sperimentazione dell’arte contemporanea, coinvolgendo la città di Venezia, dove si svolge».

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