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Intervista a Gillo Dorfles

Gillo Dorfles Gillo Dorfles

Nato a Trieste nel 1910, laureato in medicina con specializzazione in psichiatria, Gillo Dorfles è critico d’arte, pittore, filosofo, autore di numerosi saggi ed ex professore di estetica. Nel 1948, insieme a Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monent, fondò il Movimento Arte Concreta, Mac, con l’obbiettivo di portare la pittura fuori dalla figurazione e l’astrazione postcubista. Ha ricevuto l’Ambrogino d’oro e i titoli di accademico onorario di Brera e dottore honoris causa del Politecnico.  Il 5 giugno sarà inaugurata alla Triennale di Milano la mostra “Oggi il Kitsch”, da lui curata, insieme ad Aldo Colonetti, Franco Origoni e Anna Steiner, a più di 40 anni dalla pubblicazione del suo libro “Kitsch, antologia del cattivo gusto” (Mazzotta editore).

Elegante, lucido, sarcastico e a volte un po’ caustico. Soprattutto giovane, alla faccia dei 102 anni che ha compiuto il 12 aprile. Così è Gillo Dorfles, che per la seconda volta mi riceve nella sua abitazione milanese. Quando gli propongo di parlare d’arte gli si illuminano gli occhi. La scorsa volta l’avevo intervistato su Milano, argomento a lui poco gradito.

«Ha visto la mia ultima mostra al Mart di Rovereto»? mi chiede, riferendosi a “Opere recenti” (17 dicembre 2011-12 febbraio 2012). «Veramente no» gli rispondo. «Ecco, voi giornalisti siete tutti uguali – si infiamma – dovreste seguire più cose». «Non abbiamo il dono dell’ubiquità- cerco di giustificarmi – le prometto comunque che verrò a vedere l’esposizione sul Kitsch in Triennale che lei ha curato».


Quindi, lei dipinge ancora?

Certamente, tutti i giorni o quasi, non ho orari prestabiliti. Lo faccio quando ne ho voglia, sempre in questa casa.

Chi è oggi il suo erede?

Lei non può farmi queste domande (e si indispettisce più di prima). Io non posso fare nomi, gli esclusi si offenderebbero.


Mi dia un indizio almeno

No. Potrei dire Lucio Fontana, che è morto, così non si offende nessuno. Lui compreso, che poi non avrebbe di che offendersi.


Giusto, anzi ne sarebbe fiero. E delle giovani leve artistiche italiane cosa pensa?

Tutti bravi, volenterosi e in gamba.


C’è qualcuno in particolare che apprezza di più?

Non insista, la prego, lo sa che non posso esprimere preferenze. Per ogni cosa che voi giornalisti scrivete, c’è sempre qualcuno che mi presenta il conto.


Allora, non posso nemmeno chiederle chi non le piace?

Assolutamente no.


Perché tanti giovani artisti italiani oggi lamentano scarse possibilità di carriera e vogliono andare a Berlino e New York?

Perché sbagliano. E’ vero che Berlino e New York sono ottimi mercati, ma bisogna cominciare sempre dall’Italia.


La crisi ha distrutto l’arte?

Nient’affatto, anzi l’ha valorizzata. Oggi alcune opere sono più quotate di prima, perché in molti scelgono l’arte come investimento o bene rifugio.

 

Lei colleziona arte?

Si, se per collezionare si intende esporre in casa dei quadri, che sono quelli che mi hanno regalato gli amici: Lucio Fontana, Emilio Scanavino, Giuseppe Capogrossi, per fare dei nomi.


C’è qualche artista in particolare che le ha cambiato la vita?

Tutti e nessuno. Potrei dire Leonardo da Vinci e Rembrandt, ma non c’è mai stata un’opera in particolare che mi ha sconvolto e modificato l’esistenza.


Nostalgia del Mac e dei suoi compagni di un tempo?

No, Il Movimento Arte Concreta è stata un’esperienza circoscritta agli anni 1948-1958. Oggi non avrebbe più senso, così come il Futurismo. Bisogna guardare avanti.


Ha ancora senso oggi parlare di estetica, di cui lei è stato docente per tanti anni?

Certo, l’estetica rappresenta la società, dalla moda, al cinema e al design, passando naturalmente per l’arte, dove al momento intravedo tante tendenze differenti, tutte valide comunque.


Cosa pensa di moda e design?

Entrambe espressioni che hanno trovato in Italia un fertile terreno di sviluppo. Nella moda, non abbiamo rivali a livello mondiale, dal momento che sono nostri i migliori stilisti e le imprese della piazza internazionale.


E il Salone del mobile?

E’ un’ottima manifestazione, perché nel corso degli anni ha saputo fornire il senso dell’evoluzione del design e ha presentato progetti d’avanguardia, anche se tutto ciò che mette in mostra non sempre rappresenta una novità. La sezione che più apprezzo è quella dedicata al disegno industriale. Devo, inoltre, ammettere che l’Italia ultimamente ha raggiunto buoni livelli nel campo dell’architettura d’interni.


Le piace anche il Fuori Salone, con tutto il susseguirsi di eventi e visitatori di ogni nazionalità che si riversano sulle strade?

Si, perché è un segno della buona riuscita e della vitalità dell’iniziativa.


Salone e Fuori Salone si svolgono però a Milano, città che lei non ama molto.

Non la amo perché mi ha deluso. Negli anni si è imbruttita, ha chiuso i Navigli e ha distrutto i suoi principali centri di aggregazione. Che fine ha fatto la Libreria Aldrovandi di via Manzoni e  oggi quale libraio si sogna più di consigliare i propri clienti e di intrattenersi a parlare con loro? E il bar Blu, dove ci riunivamo con letterati e studiosi? Morto anche quello. Di sera poi è una desolazione, perché negozi e locali sono chiusi, non c’è illuminazione in giro si trovano soltanto i clandestini. Il resto della popolazione si rintana nelle case.


Cos’altro manca a Milano?

Un museo di arte contemporanea, che è invece presente a Roma, Napoli e anche in centri minori come Rovereto. E questo benché si parli di costruirne uno da più di cinquant’anni.


C’è il Museo del Novecento.

Non basta. E’ soltanto un luogo che raccoglie delle collezioni futuriste.


Da cosa dipende questa dimenticanza?

Dalla mancanza di iniziativa dei milanesi, che hanno tanti soldi ma poche idee e non sanno mai come realizzarle.


L’Italia, in generale, sa valorizzare il proprio patrimonio artistico?

No, basti pensare a quello che succede a Milano, dove opere preziose marciscono negli scantinati delle istituzioni pubbliche e dove è stata chiusa persino la Fondazione Arnaldo Pomodoro per mancanza di fondi.


L’Expo 2015 potrebbe essere una buona occasione di rilancio per la città?

Certamente. E non soltanto per la Lombardia, ma per l’intera Italia. Milano deve trovare il coraggio di scelte decisive.


Lei crede nel progresso tecnologico?

Si, io ho fiducia nell’innovazione, a patto che sia posta al servizio dell’individuo e non diventi un mezzo per sfruttarlo.

Alla fine, come la scorsa volta, me ne vado con un carico di insulti e lamentele rivolti a Milano, ma con la stessa convinzione di prima: nonostante i suoi 102 anni Gillo Dorfles guarda al futuro e non al passato. E è molto più giovane di tanti (anagraficamente) giovani.

 

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