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PISTOLETTO E LA VENERE CALLIFUGA

Entrare in Triennale e vedere quella distesa di opere raramente riunite in così gran numero e completezza sia per artisti rappresentati che per arco di tempo interessato, praticamente dagli esordi ad oggi, è un po’ come immergesi in un’atmosfera da “formidabili quegli anni”. Erano quelli gli anni nei quali l’ardore giovanile coniugato all’intransigente fanatismo ideologico produceva quel po’ po’ di baraonda che ribaltava come un pedalino il così detto ordine borghese, travolgendo le fragili menti dei radical chic sedotti dall’élan vital emanato dalla furia rivoluzionaria della nuova “classe” che si affacciava così prepotentemente alla ribalta della storia, i giovani!

Tutto questo per ricordare il bouillon de culture dal quale prende vita l’Arte Povera, i cui protagonisti hanno avuto identico destino di molti altri mattatori dell’epoca che passata la sbornia si sono ritrovati in comode e prestigiose poltrone a pontificare, forti di cotanta esperienza devastatrice.

Seguendo il percorso della mostra si passa dalle opere di forte rigore linguistico ed intransigenza iconografica dei fab sixteen e first seventeen alle manierate prove degli anni successivi per giungere alla vera e propria boriosa retorica degli anni più recenti. Ma si sa, si nasce incendiari e si finisce pompier.

La cifra linguistica che distingue l’Arte Povera dalle precedenti o coeve declinazioni non sta tanto nel codice, già ampiamente sviscerato dalle avanguardie storiche, quanto nella radicalizzazione iconoclasta degli stilemi e nella violenta e lucida aggressione alla nostrana cultura classica, ripudiando anche i legami di sangue con la tradizione franco-centrica, sino ad allora dominante, per guardare oltre oceano, assecondando così il mood che da lì in avanti avrebbe visto il predominio assoluto degli States nel dettare i tic della cultura.

Sull’onda del forte rivolgimento dei movimenti giovanili dell’epoca che trovavano “cccioè nel vissuto” l’autentica esperienza, ecco che il vissuto irrompe in galleria, pardon nel garage, a discapito del rappresentato. E allora vai con i cavalli, il fuoco, in sintonia con le altre tribù dell’arte, dalla land all’environement sino alla body e al conceptual, tutte art e ognuna ovviamente con i propri “tatuaggi” identificativi.

Ora che sono trascorse molte lune dai quei gloriosi giorni e gli acciacchi hanno il sopravvento rispetto all’esuberanza della giovinezza, lo sguardo distaccato dalle emozioni dell’epoca rivela al vostro, almeno spero ancora dopo questa prova, rubricante di fiducia tutta la debolezza intellettuale e la fragilità estetica di quelle opere. E’ un po’ come assistere ad una riedizione di Woodstock, c’è chi suona ancora bene e trasmette ancora un po’ di energia e chi nun’ glielà fa più e, con il senno di poi, non c’è la faceva manco allora. Così Paolini riveste di leggera eleganza semiologici rebus, Kounellis tiene ancora rabbia in corpo e Pistoletto, oltre a rispecchiare tautologicamente il mondo, appena uno si distrae ti infila qualche straccio o si rifugia nel Terzo Paradiso. Mentre Anselmo e Penone trovano scampo nel design, Zorio continua imperterrito con le stelle e soprattutto con quelle insopportabili canoe volanti che, nel caso dell’esposizione milanese, sono in sovrastante cacofonica concorrenza con i bollitori fischianti del Maestro Pistoletto, posti sotto il tavolo, of course, il cui piano di vetro è retto da un accumulo di stracci. Fabro e Merz non ci sono più e una rispettosa astensione è doverosa. Per quel che concerne Marisa Merz crediamo che le sue opere collocate in altri contesti e senza l’aura protettiva del brand, avrebbero un’accoglienza meno entusiasta di quella ora riservata. Un capitolo a parte meritano sia Boetti, che può vantare, per sua fortuna, solo un quarto di nobiltà poverista avendo l’artista sviluppato gran parte del suo lavoro fuori da quelle dorate gabbie, sia l’ancora oggi sorprendente Pascali, tragicamente scomparso l’11 settembre 1968 all’alba della nuova rivoluzione.

Ora che gli allori si posano sugli augusti capi, le medaglie si appuntano sui petti gonfi di gloria ed è giunto il consenso del grande pubblico (quello chic lo hanno sempre avuto), ora che gruppi di giovin pensionati spendono il loro tempo in estasiate visite guidate pronunciando con religioso timore i nomi degli artisti, paradossalmente si avverte un cattivo odore da fine ciclo. I figli e i nipotini di quelle radicali declinazioni linguistiche si sono infilati in un cul de sac e non trovano più l’uscita, rischiando di trascinare nell’impasse anche i piani alti dell’edificio. Fiutato il pericolo i nostri illustri Senatori cercano una via di fuga dettando impudicamente un poveristico decalogo della bellezza ad adoranti “vestaglie” dell’arte che, come sibille ispirate dal Dio, propalano il verbo. Ma come, dopo aver definitivamente sepolto ogni concetto di Bellezza, ora, nell’età della pensione, ve ne venite fuori dicendo che era tutto uno scherzo? che seppellire il calco di Venere sotto una montagna di stracci era ridare vita alla Bellezza dell’Arte, come Giorgione (minchia!), Tiziano (ri-minchia!) e, per non farci mancare nulla, pure Leonardo e Raffaello? E certo, in fondo Platone era un concettuale e Gesù un compagno un po’ fricchettone…

La mistificazione di accomunare opere dell’antichità classica e rinascimentale alle prove dell’arte contemporanea è un espediente al quale si ricorre sempre più spesso con l’evidente intento di attribuire nobiltà a queste ultime, ma l’accostamento è improprio, non per bigotta pruderie, ma perché i principi che informano l’estetica modernista del ‘900, di cui l’Arte Povera è una radicale declinazione, non hanno più nulla a che vedere con l’antico culto classico delle immagini e con la rappresentazione cristiana del divino, a meno che non si voglia considerare tale l’immagine riflessa del Maestro Pistoletto. La perentoria insistenza con la quale si vuole far passare il messaggio che l’Arte Povera è l’ideale continuazione e la rappresentante nella contemporaneità dell’antico italico genio artistico è un’operazione di vera e propria “disinformazia”, un’impostura. Del resto il lupo perde il pelo ma non il vizio e, con la stessa disinvoltura dei cuginetti eredi del libretto rosso, passati dai precetti della rivoluzione culturale alla dittatura del capitalismo, così i nostri eroi dalle snobistiche barricate sono approdati alle più prosaiche e chic auction house.

Qualcuno l’aveva detto, tanto tempo fa: “…Arrivano i cinesi succede un quarantotto si piazzano in salotto e non se ne vanno più…”.

Buoni wanton a tutti.

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