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Paradise. La storia dei braccianti polacchi morti in circostanze inspiegabili nel Tavoliere pugliese

Paradise teatro

Paradise teatro Recensione dello spettacolo teatrale Paradise – unico evento andato in scena il 26 all’interno del Focus Puglia sugli artisti pugliesi. La piece verte sulla storia vera di braccianti polacchi morti in circostanze inspiegabili dal 2003 al 2008 nel Tavoliere pugliese.

Paradise è uno spettacolo di Valeria Simone con la regia di Marialuisa Longo andato in scena al Teatro Kismet di Bari il 26 all’interno della quattro giorni dedicata ad artisti pugliesi che si è protratta sino al 29 Gennaio 2017.

Guardare la schiavitù di oggi significa guardare dentro casa nostra, verso luoghi più o meno desolati che siamo abituate a vedere in treno o per qualche gita fuori porta. La schiavitù è davvero sempre un ritorno alle origini: del lavoro, dell’identità, di ciò che è usuale e di ciò che non lo è, della rassegnazione, della ribellione, dell’espiazione.

Elisabetta Aloia interpreta un monologo in cui una caporalessa polacca gestisce il traffico di schiavi suoi connazionali per la raccolta dei pomodori in Puglia. La pièce prende spunto dalla cosiddetta spoon river degli schiavi polacchi scomparsi nell’area del Tavoliere pugliese dal 2003 al 2008, inghiottiti nel nulla della tratta di esseri umani e di fosse comuni.

La narrazione degli eventi si concentra sulla figura di una subalterna che si emancipa attraverso l’organizzazione della schiavitù dei suoi compagni polacchi, rispetto ai quali si erge con l’abbondanza di ori alle orecchie e al collo. La supremazia di questa donna è troppo simile alla volgarità della presenza innanzitutto, e per un pugliese particolarmente riconoscibile, per associarla alla condizione di inferiorità da mancanza di diritti umani e sociali quali lo stato di schiavitù riduce.

Al centro del palco solo casse di pomodori. Elisabetta Aloia si muove tra somiglianze e richiami, tra la comune esistenza dietro l’angolo di cittadini e reietti e la comune indifferenza di chi non sa e di chi non vuol sapere. C’è squallore, c’è schifo, in tutta la storia raccontata che alla prolissità verbale affida la stanchezza dei soprusi.

Paradise teatro

Il monologo non registra scossoni e appare monocorde dal punto di vista emotivo proprio perché  non ricerca affinità elettive con gli oppressi ma tende quasi ad arruffianarsi il pubblico suggerendo: “Sono come voi, ce l’ho fatta, sono sopravvissuta a qualcun altro”. Esteticamente poco digeribile, o forse troppo scarno, il punto di vista della caporalessa assomiglia troppo a determinati atteggiamenti culturali pugliesi per cogliere i tratti di una tragedia che siamo abituate a conoscere tramite persone dal colore della pelle nera e dalla storia di migrazione molto più complessa e faticosa. Una tragedia.

Ecco, sull’impossibilità del tragico ci richiama la protagonista, e lo fa proprio su quelle morti di cui non si è saputo nulla per tanto tempo: esistono incidenti, esiste il caso. La vita ci capita, forse a qualcuno un po’ di più. Assumere le sembianze del caporale non comporta negare la propria femminilità. Anzi, talvolta può significare enfatizzarla nelle intenzioni di chi lo diventa.

Camminare da padrona risulta molto coatto, non per questo meno credibile, e il palcoscenico diventa elemento essenziale per flash-back e rinascite esistenziali.
Giurare di non essere disposte a riconoscersi neanche davanti allo specchio è il finale che tutti speravano.

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