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Dalla POP ART ai Graffiti. Warhol, Schifano e Toxic in mostra a Firenze

Andy Warhol, Regina Schrecker con sfondo rosso, 1983, acrilico su tela, cm 101,6x101,6 Andy Warhol, Regina Schrecker con sfondo bianco, 1983, acrilico su tela, cm 101,6x101,6
Andy Warhol, Regina Schrecker con sfondo rosso, 1983, acrilico su tela, cm 101,6x101,6 Andy Warhol, Regina Schrecker con sfondo bianco, 1983, acrilico su tela, cm 101,6x101,6
Andy Warhol, Regina Schrecker con sfondo rosso, 1983, acrilico su tela, cm 101,6×101,6
Andy Warhol, Regina Schrecker con sfondo bianco, 1983, acrilico su tela, cm 101,6×101,6

Dalla POP ART ai Graffiti. Apre oggi, 19 marzo,  la mostra alla galleria Frediano Farsetti di Firenze. Il percorso intrigante e affascinante si snoda per oltre cinquant’anni, attraverso le opere di tre noti artisti: Andy Warhol, Mario Schifano e Toxic, dai primi esempi della Pop Art alle ultime esperienze della Street Art e dei Graffiti. L’esposizione prosegue fino al 19 aprile 2016.

Andy Warhol e la Pop Art
Tra i movimenti artistici nati nella seconda metà del XX secolo, la Pop Art è forse quella che è riuscita a penetrare più a fondo nell’immaginario collettivo; del fenomeno pop Andy Warhol sarà l’artista più emblematico, arrivando quasi a identificarsi con esso, a divenirne la vera e propria incarnazione.

Nata all’inizio degli anni Sessanta come reazione, da parte delle nuove generazioni, all’introspezione dell’espressionismo astratto, percepito come arte chiusa all’interno dei suoi propri strumenti linguistici e dell’emotività dell’individuo, la Pop Art si apre al mondo esterno e agli innumerevoli stimoli che la società contemporanea, in piena stagione di boom economico e di affermazione del consumo di massa e dei mezzi di comunicazione, offriva alla sensibilità degli artisti.

L’arte si integra così di nuovo alla vita della collettività; già nel 1958 il pioniere degli happening Alan Kaprow interpreterà queste nuove esigenze: “Le suggestioni che la pittura può fornire ai nostri sensi non sono sufficienti […] Qualsiasi genere di oggetto è un materiale valido per la nuova arte: colori, seggiole, cibo, luci elettriche e al neon, fumo, acqua, vecchi calzini. Un cane, il cinema e la gamma illimitata di altre cose che la nostra generazione di artisti saprà scoprire […] L’artista giovane […] trarrà da cose normali il significato della normalità. Non cercherà di renderle straordinarie. Solo il loro significato intrinseco verrà stabilito”.

Tutta l’opera di Andy Warhol, che spazierà attraverso moltissimi linguaggi espressivi, dalla musica alla fotografia, il cinema, l’happening e che troverà nella tecnica del silkscreen la sua cifra fondamentale, può essere interpretata secondo queste linee-guida: Warhol diverrà il cantore della società dei consumi e dei mezzi di comunicazione, prenderà gli oggetti comuni che si trovavano nelle case di ogni famiglia americana, come le scatole di detersivo, le bottiglie di Coca Cola, i cibi in scatola e li riporterà sulle sue tele e negli spazi delle gallerie d’arte, riproducendoli in serie e utilizzando procedimenti meccanici, tesi ad azzerare il più possibile l’intervento manuale e di conseguenza l’emotività individuale.

Con Wharol l’opera diviene riproducibile teoricamente all’infinito, perdendo improvvisamente la sua aura di oggetto unico e originale: tutto assume la dignità di oggetto artistico, in una radicalizzazione del concetto di ready made, e allo stesso tempo l’artista perde ogni connotato autobiografico, non rivela niente di sé nelle sue opere: “Se volete sapere tutto su Andy Warhol, basta che guardate la superficie: quella delle mie pitture, dei miei film e la mia, lì sono io. Non c’è niente dietro”.

E paradossalmente queste immagini ordinarie che Warhol riporta sulla tela, dai prodotti di largo consumo alle celebrità dello star system, personaggi del ceto medio trasformati dai mass media in miti, assumono valore assoluto, divenendo vere e proprie icone dell’arte moderna e segnando in modo indelebile la cultura visiva contemporanea, fino ai nostri giorni. Un esempio di come Warhol riesca, nei suoi ritratti eseguiti in serie, a creare rappresentazioni emblematiche è la coppia di ritratti di Regina Schrecker, presenti in mostra, che dimostrano come il sistema di produzione meccanico, simile a quello industriale, usato a fini espressivi, riesca a trasformare la persona ritrattata, tramite la sua spersonalizzazione, in un vero e proprio simbolo, di grande forza espressiva.

Mario Schifano
Mario Schifano, Banca Popolare, 1978, smalto e acrilico su tela, cm 170×160

Mario Schifano e la Pop Art in Italia
La Pop Art ha avuto immediato successo e diffusione non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, e in Italia una delle figure che è stata messa più in relazione a queste esperienze è stato Mario Schifano, certamente uno degli artisti più significativi nel panorama della pittura europea del secondo Novecento.

Sebbene avesse vissuto a New York proprio negli anni in cui il movimento Pop nasceva, Schifano rifiuterà sempre un diretto accostamento con esso: “Ho fatto i miei lavori contemporaneamente, e non successivamente, alle esperienze pop […] La pop art la facevano loro e la imponevano, quasi come un fatto politico”.

Nonostante questa presa di distanza, in molte opere di Schifano si riscontrano elementi connessi alla cultura pop, come l’ingrandimento di insegne e loghi della pubblicità, l’isolamento di frammenti di realtà e di immagini celebri, come la fotografia dei quattro esponenti futuristi, estrapolate dal contesto e riprodotte tramite procedimenti meccanici, come lo stencil, l’uso di linguaggi molteplici mediati dalla tecnologia, come la fotografia e il cinema, e il ridurre la superficie dipinta alla pura bidimensionalità. Ciononostante Schifano, artista istintivo, resterà sempre fedele al mezzo pittorico tradizionale e alla sua gestualità, spesso usando il tubetto di colore come pennello, spruzzato direttamente sulla tela, e stringendo con l’atto di dipingere un rapporto quasi sensuale.

La pittura di Schifano è ricca di suggestioni molteplici, che spaziano dalle citazioni della storia dell’arte alla televisione, che l’artista riporta sulla tela come cannibalizzandole, restituendoci immagini che sfuggono alla contemplazione, come se sulle tele si riflettesse l’inquietudine e l’irrequietezza del suo creatore.

Nei grandi dipinti degli anni Ottanta, di cui in mostra sono presenti splendidi esempi, la pittura arriva a strabordare sulla cornice, in una costante gioia e felicità creativa in cui le suggestioni pop si fondono alla materia e al gesto con leggerezza, nella volontà di rappresentare le cose per quello che sono: “La mia maniera è guardare: le cose sono tutte diverse fra loro, e io voglio rappresentarle nella loro diversità. Non amo la psicologia, o i quadri che parlano di una psicologia. Né amo la psicologia dell’artista”.

Toxic
Toxic, Senza titolo, 2006, smalto su tela, cm 110,5×98,5

I Graffiti di Toxic
La rivoluzione della Pop Art influenzerà in modo determinante molti movimenti artistici successivi, e il graffitismo, affermatosi nei quartieri popolari di New York alla fine degli anni Settanta, radicalizza alcuni dei suoi assunti: il fare artistico non si limita più a inglobare temi e oggetti della cultura di massa, ma l’arte invade letteralmente la città, e segna alcuni non-luoghi emblematici del tessuto urbano, come i muri delle stazioni e i treni delle metropolitane che, riempiti dalle tags e dai disegni dei primi writers, dalla periferia portano, involontariamente, quei segni ogni giorno nel cuore della metropoli.

La spersonalizzazione dell’autore iniziata con gli artisti pop si fa qui completa: i nomi sono sostituiti da sigle o pseudonimi, l’anonimato diventa un elemento fondante della poetica di questo originalissimo linguaggio nato nelle strade che, se da una parte si riappropria dell’atto gestuale, dall’altra lo svuota di ogni connotato che faccia risalire all’identità dell’esecutore.

Andy Warhol, da sempre attento ai fermenti di novità che si affacciavano sul panorama newyorkese, all’epoca vero centro nevralgico dell’avanguardia, accoglierà il movimento della street art all’interno della sua Factory, fucina creativa in continua attività, stringendo in particolare un felice sodalizio con Jean-Michel Basquiat, con cui realizzerà anche un ciclo di opere in collaborazione.

Toxic, nato nel Bronx, fin da giovanissimo farà parte del primo nucleo di writers nel gruppo di Rammelzee TMK (Tag Master Killers), e una profonda amicizia lo legherà a Basquiat; dalle strade e dai treni la sua opera si sposterà presto, come quella di molti writers della prima ora, sulle pareti di celebri gallerie americane, come Fashion Moda e Sidney Janis. Alla fine degli anni Ottanta sceglierà di lasciare gli Stati Uniti per l’Europa, lavorerà per alcuni anni a Firenze, per poi stabilirsi a Parigi.

Considerato uno degli esponenti più significativi del movimento, le tele di Toxic, trattate come se fossero interventi sulle superfici anonime dei muri degli edifici newyorkesi o dei vagoni, si popolano di esplosioni vivaci di colore acido, di figure grottesche, di parole e di simboli a volte riconoscibili a volte oscuri, evocazioni delle memorie personali dell’artista o proclami di protesta. Un universo complesso e in continuo movimento, come un flusso di  coscienza che non obbedisce alle regole e sovverte i codici convenzionali della rappresentazione per obbedire soltanto alla pura libertà creatrice dell’artista, che dalla conquista della strada e della città si appropria dei luoghi tradizionali dell’arte, così come la Pop Art era riuscita a popolare le pareti delle gallerie e dei musei con gli oggetti quotidiani della società contemporanea.

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2 Commenti

  • Buon giorno,sarei interessato a conoscere le quotazioni delle opere di Toxic.
    Ringrazio ee saluto

    • Buongiorno Mario,
      può contattare la galleria di riferimento dell’artista.
      O eventualmente anche provare a contattare la galleria Farsetti dove si è svolta questa mostra.
      Cordiali saluti
      la Redazione

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