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Biennale Arte di Venezia: All the World’s Futures o Back to the Future?

Biennale: All the Future o Back to the Future - ArtsLife

Perdonatemi, ma a ‘sto giro sono uscito vivo a fatica e un po’ irritato dalla Biennal Passion, la “messa in saor” approntata dal nostro mega Curator.

Più che All the world’s futures direi Back to the future. Infatti la supponenza pedagogica del curatore ha la pretesa di disegnarci i futuri scenari del mondo, vasto programma, sulla base di pregiudizi ideologici marxisti e terzo-altero mondisti che non solo non prefigurano niente, ma manco ci raccontano il presente. Infatti nulla ci dice -a parte qualche presenza, tipo l’immacabile Bruce Nauman- l’insopportabile bazar etnico, tendenza centro sociale chic, messo su all’Arsenale, circa il vuoto lasciato dalla post colonizzazione. Poi riempito in epoca di guerra fredda dal mondo a trazione comunista, sulle cui ceneri è fiorito un islamismo feroce e violento, che fa strage di genti e bambini, specialmente se cristiani. Nulla ci racconta dei nigeriani di Boko Haram, delle splendide gesta delle bande di somali che massacrano inermi turisti in Kenia. Se proprio vogliamo buttarla in politica -invece di mostrarci qualche operette d’arte- al posto dei canti degli oppressi ci facesse sentire le urla delle vittime. Ora basta, mi sono rotto degli Okwui Enwezor, Catherine David, Carolyn Christov-Bakargiev ed altri vari ed avariati protagonisti del circo Barnum della critica militante che si alternano, sfidandosi a distanza, al comando delle infinite biennali del globo terraqueo. Facessero delle conferenze, scrivessero dei libri ma la smettessero di sfondarci i cabasisi. Se poi tutta ’sta purezza militante si risolve nel santificare artisti, anche meritevoli, che una volta riapparsi come fiumi carsici a Kassel, riaffiorano dopo un tragitto sotterraneo in qualche super Cool galleria newyorkese ed infine trionfano qui a Venezia beh, a pensar male si fa peccato… specialmente poi se l’esempio non è isolato.

Per buttarla un po’ in vacca direi che qui gli oppressi siamo noi, il pubblico, che manco a pagamento ci sottoporremmo in altri contesti a simili inutili fatiche. Un tempo tra chi si occupava di faccende artistiche ero uso scherzosamente dire “sempre meglio che lavorare”. Ora la livella egualitaria è giunta anche qui, Amen!

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