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Arte concettuale e dematerializzazione dell’opera: il diritto al banco di prova

Wall Drawing, Sol Lewitt, foto di Minako Jackson
Wall Drawing, Sol Lewitt, foto di Minako Jackson


L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità”, scriveva U. Foscolo nel suo Epistolario. La tensione verso l’inesplorato e la ricerca dell’originalità sono sentimenti tipici nell’uomo. E l’artista, fra gli uomini, è forse colui che li avverte con maggiore coinvolgimento. Il tentativo di indagare la realtà e rappresentarla, interpretandola, in forme e con strumenti sempre nuovi è una cifra stilistica frequente nell’arte moderna e contemporanea. L’utilizzo di modalità espressive inedite, talora estreme, pone però alcuni interrogativi in merito agli aspetti più pragmatici della vita dell’opera d’arte, non da ultimo la regolamentazione della sua circolazione sul mercato e la sua tutela giuridica. Com’è noto, nel nostro ordinamento il diritto d’autore tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Una definizione molto ampia ed inclusiva quella che ci proviene dalla normativa di riferimento (art. 1 della legge 22 aprile 1941, n. 633). Tuttavia la clausola generale contenuta nella lettera della legge si è trovata nel corso del tempo a fare i conti con le sempre più mutevoli modalità espressive dell’arte contemporanea. L’incessante bisogno di esprimere il genio artistico in forme sempre nuove ha condotto verso una crescente contaminazione tra generi, portando sovente ad una vera e propria dematerializzazione dell’opera d’arte, verso tipologie fino a quel momento sconosciute e difficilmente inquadrabili nelle categorie classiche (si pensi agli happening, alla performance art, fino alle più radicali estremizzazioni dell’arte concettuale): forme che sfidano gli strumenti tradizionali messi a disposizione dal diritto per tutelarle. Qualcuno ha parlato a ragione di opere d’arte effimere o di opere nell’era della loro (ir)riproducibilità tecnica, caratterizzate per un verso da una concezione quasi “esperienziale” del lavoro artistico, irriducibile al solo godimento estetico e passivo da parte del visitatore-collezionista, e per un altro dall’unicità, o meglio irripetibilità, del suo contenuto. L’individuazione dell’opera d’arte in qualcosa di materiale è operazione relativamente agevole se si pensa alle forme artistiche tradizionali come pittura, scultura, architettura. Più complicata diventa la classificazione nel momento in cui il lavoro artistico consiste in un’idea, un’azione, una promessa, una porzione di tempo o un’istruzione fornita all’acquirente per la realizzazione dell’opera stessa; pensiamo ai wall drawings di Sol Lewitt, in cui l’opera vera e propria è data da un certificato, autenticato dall’artista, contenente istruzioni precise per la creazione di un dipinto murale, rivolte ad un collezionista che tuttavia rimane libero di realizzarlo o meno. Oppure alla singolare performance di Alessandro Nassiri Tabibzadeh, che si offre al collezionista come custode riservato di uno o più segreti che questi vorrà confidargli (naturalmente il prezzo dell’opera varia in base al numero e all’importanza dei segreti). O ancora ad una famosa opera di Heman Chong, il cui oggetto sono 365 ore di silenzio: tra l’artista e il collezionista viene stipulato un accordo in base al quale quest’ultimo si impegna a rimanere in silenzio per un’ora consecutiva al giorno, da scegliere a suo piacere durante il periodo quotidiano di veglia. In queste manifestazioni d’arte l’attenzione si sposta dal contenuto in sé (e dal soggetto autore) all’idea e al processo creativo che hanno concepito l’opera e al contesto nel quale essa prende forma. Di fronte a simili lavori è comprensibile l’imbarazzo che prova il giurista, abituato com’è ad operare sui beni, entità oggettive od oggettivabili che facilmente si identificano con qualcosa di concreto.

Heman Chong, foto di Ernest Chua, 2011

Qui invece ci si trova di fronte a qualcosa che sfugge alle categorizzazioni tradizionali, nella non facile operazione di decidere anzitutto se simili lavori possano diventare oggetto di tutela da parte del diritto e, in secondo luogo, quale possa essere una forma di protezione adeguata. Il nostro diritto d’autore, come si è detto a proposito dell’art. 1 della legge 633/1941, dimostra una non scontata lungimiranza al riguardo (soprattutto se rapportata all’epoca in cui fu emanata la normativa), che gli consente di essere sufficientemente al passo con la trasformazione delle forme d’arte e quindi capace di assicurare, quanto meno in via generale, adeguata tutela anche alle più singolari manifestazioni del genio creativo dell’artista. Il problema semmai si pone ad un livello diverso, quando cioè si passa dall’enunciazione di principio alla gestione pratica del traffico giuridico connesso alla circolazione di tali opere sul mercato dell’arte. Qui gli strumenti sono quelli tipici del diritto civile e, fra essi, il più tradizionale di tutti: il contratto. I limiti in questa fase si manifestano più evidenti e mostrano tutta la difficoltà di uno strumento tradizionale ad adattarsi all’evoluzione dei tempi. Determinare con chiarezza l’oggetto della prestazione, attribuirle un aspetto patrimoniale, predisporre un sistema efficiente di catalogazione ed archiviazione delle opere sono solo alcuni dei problemi che possono presentarsi al professionista del diritto; problemi tutt’altro che marginali in un ambito, quello giuridico, abituato alla certezza dei suoi mezzi e contenuti.

E dunque, ancora una volta e analogamente a quanto avviene in molti altri settori, la vera sfida del diritto si gioca sul terreno dell’applicabilità delle regole generali, sempre valide ed efficaci, a situazioni nuove e singolari, in continua evoluzione e non facilmente comprimibili nel già esistente, con la necessità forse di innovare taluni strumenti per renderli capaci di rispondere alle esigenze della contemporaneità. L’importante, pensando al futuro, è adattare il diritto alla realtà in continua trasformazione e non comprimere quest’ultima ai modelli del passato.

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2 Commenti

  • Se lo dici tu!

  • l’arrivo della realta virtuale low cost per il 2014 spazzerà video le seguenti categorie artistiche: installazioni multimediali, performance, videoarte, tutto diverrà obsoleto, quindi nessuna galleria o museo sarà interessata a comprarle. Tutto diverrà software , gli artisti del futuro quindi sono i programmatori e l’unica arte da collezionare è la game art o il retrcomputing

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