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Quando la cultura è “culturalmente” più lenta del porno

Nam June Paik

Negli ultimi tempi, nel dibattito pubblico emergono con sempre maggior frequenza riflessioni legate al rapporto tra umanità e tecnologia.

Un interesse giustissimo, al quale bisognerebbe dedicare sempre maggior spazio sia per le implicazioni di natura teoretica, sia per le conseguenze più prettamente pragmatiche che le nuove tecnologie hanno sulla nostra vita.
Particolari preoccupazioni ha suscitato un approfondimento che la trasmissione televisiva Presa Diretta ha dedicato al tema, in cui, tra le tantissime notizie che venivano diffuse, c’era anche l’intervista al Dottor Michael Merzenich, celebre neuroscenziato, che sta studiando le possibili implicazioni neuronali che l’utilizzo della tecnologia induce.
Da tale intervista sono emerse differenti interpretazioni, le più frequenti delle quali presentavano titoli del tipo “La tecnologia ci rende stupidi” e affini.
Titoli efficaci, il cui scopo è quello di stimolare la lettura ma che corrono il rischio di raccontare solo una visione parziale di un fenomeno molto complesso, che coinvolge differenti dimensioni del nostro vivere quotidiano.
Quanto di vero c’è in tali affermazioni è da ricercare nel rapporto che noi umani abbiamo sviluppato con gli strumenti che abbiamo a disposizione.
Così come per (quasi) tutti gli strumenti, della tecnologia importa l’utilizzo che se ne fa e come recita ormai un “luogo comune”, con la potenza di calcolo di uno smartphone si potrebbero guidare 500 Shuttle sulla luna contemporaneamente, e noi giochiamo a Candy Crash.
Mai come oggi la cultura è a disposizione di “tutti”: con un account gratuito si possono leggere tutti i quotidiani, i libri dei filosofi, guardare opere d’arte in alta risoluzione, sperimentare nuove forme di linguaggio.
Una potenzialità di diffusione che chi si occupa di cultura non ha mai avuto ma che, puntualmente, il mondo della cultura non riesce a sfruttare in modo veramente innovativo.
Il caso dei Deep Fake, che in questi giorni sta spopolando sulle riviste patinate e semiserie, è soltanto l’ultimo degli esempi di un’occasione perduta.
Partiamo dall’inizio: nel 2017, su un popolare social network (Reddit) un utente (Deepfake) ha iniziato a caricare dei brevi filmati che erano molto più che un semplice “falso” (fake) perché sfruttando una tecnologia molto innovativa riuscivano ad avere un effetto ancora oggi molto efficace.
In pratica i deep fake sono filmati che utilizzano una forma di intelligenza artificiale attraverso la quale è possibile sovrapporre ad un determinato video il volto e la voce di un’altra persona, creando un falso perfetto, impossibile da riconoscere dall’originale.
Lo sviluppo successivo di questa tecnologia non è stato ad opera di un’artista o di un regista, che avrebbero potuto creare delle opere estemporanee, né è stato ad opera di un Museo, che avrebbe potuto permettere di creare delle audioguide in cui è l’opera d’arte in prima persona a spiegarsi.
I contenuti che, per primi, sono stati realizzati con questa tecnologia sono, banalmente, dei porno.
Qualunque sia la propria posizione personale nei riguardi del tema, è indubbio che questo settore si caratterizzi come uno tra i più attivi nell’industria dei contenuti degli ultimi anni.
Milioni di utenti, di ogni sesso, età e nazionalità, fruiscono quotidianamente di contenuti che, per quanto non abbiano nulla di “culturale con la C maiuscola”, prevedono ruoli, lavori, e catene di produzione identici alle filiere produttive cinematografiche classiche.
E senza ombra di dubbio, l’industria del Porno risulta anche essere la più attenta ad ogni tipologia di innovazione nel campo tecnologico legato all’audiovisivo. Dalle telecamere a 360 gradi ai Glasses virtuali, dalla profilazione dei gusti degli utenti, fino all’utilizzo dei deep fake.
Mettendo da parte la “tipologia” di contenuti e concentrando l’attenzione esclusivamente sulla capacità di interpretare i recenti sviluppi tecnologici, è fuor di dubbio che tra questo comparto e le restanti industrie culturali e creative, lo scarto sia notevole.
Se Agamben definiva contemporaneo chi “riusciva a vedere nel buio” del proprio tempo, per comprendere il proprio presente, senza dubbio su questo versante, l’industria a luci rosse appare essere una delle più “contemporanee”, spesso, più contemporanea degli artisti.
Probabilmente, queste conclusioni piaceranno a pochi, e ciò è comprensibile.
Chiunque vorrebbe che a “umanizzare” lo sviluppo tecnologico sia un artista, un letterato, o quantomeno un produttore di contenuti di altro genere.
La responsabilità di questa condizione, tuttavia, è tutta della cultura, spesso troppo lenta (soprattutto nel nostro Paese) a comprendere come poter trasformare uno strumento potenzialmente nocivo (come i deep fake) in un medium attraverso il quale produrre qualcosa di buono, che arricchisca la vita delle persone.
Era quello che facevano Nam June Paik e grande parte dell’avanguardia artistica degli anni ’60 e ’70.
Oggi invece, ci pensa la pornografia.

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