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Tra mito e archetipo. Le nature morte dalle forme scultoree di Marco Maria Zanin

L’artista Marco Maria Zanin, dopo l’exploit a Paris Photo nel novembre scorso, sarà ad Arte Fiera a Bologna dal 23 al 26 gennaio 2020 con la galleria Spazio Nuovo Contemporary Art di Roma

Guillaume Maitre e Paulo Pérez Mouriz di Spazio Nuovo Contemporary Art di Roma, fondatori di una delle gallerie italiane più orientate sulla scoperta e sulla valorizzazione dei giovani talenti italiani e internazionali, si sono presentati come new entry a Paris Photo lo scorso novembre. E, nell’ambito della più importante manifestazione di arte fotografica di Parigi, hanno esposto i lavori più recenti dell’artista padovano Marco Maria Zanin (1983), riconosciuto in Italia e all’estero per la sua ricerca tra mito e archetipo come matrici sommerse dei comportamenti contemporanei.

Il progetto e l’indagine profonda di Zanin che vive tra Padova e San Paolo del Brasile si concentra infatti sulla relazione tra uomo, natura e tempo e si sviluppa in una produzione di oggetti scultorei dall’apparenza misteriosi e tribali e di fotografie che riflettono la forza prorompente e i valori della memoria.

L’artista rivela la fonte delle sue nature morte: “Alle mie spalle e tutto intorno a me ci sono gli oggetti che hanno accompagnato i giorni più belli e più teneri della mia infanzia: i portacandele in legno fatti dal nonno che usavamo quando andava via la luce per le nostre cene a lume di candela, il tagliere in ulivo che raccoglie le briciole del pane da dare agli uccellini, la pentola in rame da cui raschiavo con cura la crosta della polenta della nonna, la piccola scatola intarsiata dal nonno per l’economia di comunione, il barattolo del pan biscotto con cui io e mio cugino ci facevamo grandi merende. E questo tavolo, dove facevamo il pane, la pasta fatta in casa, il pesto appena il basilico maturava nell’orto del nonno, il nocino il giorno di San Giovanni, la conserva di pomodoro ad agosto. Dove, insomma, ancora oggi ogni gesto, nella sua semplicità e nel profondo desiderio di farlo insieme, diventa un rituale. E dove il tempo, nonostante fuori il mondo si stesse trasformando sempre più velocemente, si scandiva in questi piccoli rituali collettivi stagionali che lasciavano dentro una sensazione di pace concreta, un punto di appoggio interiore che, poteva crollare il mondo, ma sentivo che quello era vero, che era solido come la roccia e da lì avrei potuto affrontare qualsiasi sfida. Il mondo dei miei nonni, nati in famiglie di quel Veneto contadino che era chiamato “il sud del nord”, ben prima del boom economico, mi è germogliato dentro fino a diventare una stella polare, una traiettoria”.

Una fonte d’ispirazione ricca e feconda che inneggia alla semplicità del mondo rurale dove i cimeli, i vecchi utensili o gli attrezzi da falegnameria rinascono carichi di una nuova forza e bellezza e attraggono lo sguardo per quelle particolari forme così enigmatiche da sembrare antichi simulacri, simbolo di un passato remoto.

“Girando per i mercatini dell’antiquariato continuavo ad essere attratto da queste vecchie pialle, che vedevo usare al nonno quando lavorava il legno” prosegue l’artista “Più le guardavo e più vi riconoscevo delle forme quasi archetipiche, come se le mani di questi artigiani fossero state guidate da qualcosa di profondo, un’intuizione proveniente da uno spazio umano in cui è registrata l’origine di tutto, ma nello stesso tempo dalla capacità di recepire e tradurre una specifica identità locale. Il taglio libera la forma che avevo intuito al loro interno e apre una porta, un canale. L’intervento mi serve per tagliare la gola alla descrizione dell’oggetto come utensile del falegname, ma ancor più per rompere lo status attribuito da parte delle categorie di pensiero della temporalità dominante che lo collocano come oggetto da mercato dell’antiquariato o da collezione, o ancor peggio, da museo. Queste sono abitudini, o piuttosto patologie, di una società che ha appiattito il suo orizzonte alla funzione e al consumo delle cose. Vita uguale funzione. No, bisogna aprire l’orizzonte, infliggere una ferita. Ma la ferita, citando un’espressione di Don Tonino Bello, che ho usato anche per intitolare la serie delle ‘pialle’, se siamo capaci di guardarci attraverso, può diventare feritoia (Ferite feritoie 2017 è il titolo della Serie di opere, ndr)“.

Le nature morte di Zanin prendono forme scultoree ma possono anche generare immagini fotografiche come altro codice espressivo: “Renger-Patzch, Weston, ma anche Man Ray, Tina Modotti, Moholy-Nagy e altri artisti in quegli anni lavoravano sull’aprimento dell’essenza del soggetto attraverso la fotografia, soprattutto concentrandosi sulle forme presenti in natura. Ma forse l’esperimento più forte è stato quello di Karl Blossfeldt, che attraverso le sue alterazioni della forma ci fa vedere l’informe che sta sotto di essa.  Icone primordiali alla base dell’architettura del visibile, diceva Benjamin, che ci aiutano ad assumere i codici espressivi per trasformare il mondo in immagine, per costruire un legame tra il mondo corporeo e lo spazio immaginativo. In altre parole, le forme archetipiche che ho riconosciuto anche nelle pialle. L’archetipo è per sua essenza qualcosa di aperto, di generativo, una sorta di motore che nel divenire continua ad esercitare il suo magnetismo. In Ferite feritoie questo sconfinamento verso lo spazio immaginativo avviene, grazie alla fotografia, anche con l’aumento della scala, in cui la pialla scivola ancora più via da se stessa e cortocircuita con l’altro orizzonte di senso che voglio raggiungere: diventa totem, monolite. L’oggetto stampato sulla carta diventa segno, la bidimensionalità assottiglia il corpo fino a farlo diventare, come direbbe Hegel, materia spirituale”.



Per l’arte di Marco Maria Zanin la prossima tappa espositiva è già fissata e sarà ad Arte Fiera 2020 a Bologna dal 23 al 26 gennaio nello stand di Spazio Nuovo Contemporary Art.

 

www.spazionuovo.net

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