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Lacrime sul tempo che finisce. Un ricordo di Rutger Hauer, il replicante di Blade Runner

E’ morto Rutger Hauer. Scomparso a 75 anni il 19 luglio dopo una breve malattia

Cos’è che mancava? La colomba bianca, disse la tengo in mano, viene meglio. La pioggia incessante gli colava sui capelli biondi, una riga di sangue gli lacrimava il viso, e in quell’atmosfera sospesa tra la vita e la morte, lui cambiò anche la sceneggiatura, tenendo quella colomba in mano, e disse, riempiendo le pause con i suoi occhi gelidi, eppure tristi: «Ho visto cose che voi umani non potete immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… e i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser… e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire».

Ridley Scott raccontò che non era scritto così, che quelle frasi non c’erano nel testo, e quelle «lacrime nella pioggia» Rutger Hauer, il Replicante Roy di Blade Runner, le aveva improvvisate, ma si fece un silenzio attorno a lui che nessuno osò fermarlo: «Era così toccante che anche quelli che stavano filmando la scema furono commossi». Quel film del 1982, è ambientato nel futuro, in una distopica Los Angeles del 2019, quando il suo protagonista più famoso finisce per morire. Oggi che il 2019 non è più il futuro, Rutger Hauer è morto il 19 luglio nella sua casa di Beetsterzwaag, in Olanda, proprio nello stesso anno in cui il personaggio che l’ha reso una icona del cinema diceva, sotto la pioggia, con la colomba in mano, che era tempo di morire, perché la vita fa queste cose. A volte non ha senso, come i biglietti del Superenalotto. Ma poi non si dimentica mai di niente.

E nella vita di Rutger Hauer c’è sempre stato qualcosa che un senso non ha, come le poesie espressioniste che scriveva nei coffee shop di Amsterdam al posto di andare alle lezioni serali della scuola di arte drammatica, quando non aveva ancora vent’anni e aveva tutto il mondo davanti. Lo buttarono fuori per questo: non c’era mai. Ma lui non voleva fare l’attore. Lo scoprì dopo di esserlo, e solo perché lo convinse il suo mentore, il regista Paul Verhoeven, che lo fece esordire in Floris, una fiction della tv di ambientazione cavalleresca che ebbe un grande, inatteso successo. A lui piaceva scrivere, si sentiva un poeta, uno capace di lavorare con la parola. Per questo le battute di Blade Runner se le riscrisse lui: era bravo a farlo. E per questo continuava a ripetere che l’attore non è importante, che non conta niente, che il cinema lo fanno altri: «Quanti grandi film avete visto con cattivi attori? E quanti brutti film con grandi attori?».

A lui piaceva il mare, e voleva seguire le orme di suo nonno che era un capitano di goletta. A 15 anni scappò di casa e si imbarcò su un piroscafo mercantile. Ma aveva un difetto, era daltonico, e dopo un anno scese di nuovo a terra, per tornare a casa con le tre sorelle e i genitori. Papà e mamma, Arend e Teunke, erano due attori drammatici, che erano sempre in tournée e non c’erano quasi mai in famiglia. Quando lo vide tornare, sua madre lo iscrisse alla scuola d’arte drammatica. Solo che lui non si presentava quasi mai alle lezioni e lo sbatterono fuori. E allora si riavvicina al primo amore e finisce in Marina. Pentendosene subito, però: per venirne fuori cerca di convincere i suoi superiori di avere problemi mentali. Con il risultato di finire in un ospedale psichiatrico, per uscirne solo quando finalmente si convincono tutti che la carriera militare non fa per lui.

E’ qui che cambia la sua vita: fa un mucchio di mestieri improvvisati, fa il carpentiere, il barista, l’elettricista, e anche la guida alpina in Svizzera. Ma intanto torna a iscriversi alla scuola drammatica. Perché la vita un senso non ha. E lì conosce Verhoeven.

E’ il 1969 quando esordisce in Floris. Ha 25 anni. Dicono che a quell’età si è compiuto il tuo carattere, che si diventa uomini. Certo che lui da questo momento sembra un altro. Arriva a Hollywood nel 1981, «I falchi della notte» con Sylvester Stallone. E Ridley Scott se ne innamora: lo vuole per la parte del replicante Roy. Non c’è bisogno neanche del provino. E’ il cattivo perfetto. Invece per la parte di Rick Deckhard, Harrison Ford deve superare un casting difficilissimo, con Sean Connery, Dustin Hoffman e Jack Nicholson.

Questo ruolo marca l’esistenza professionale di Rutger Hauer. Lui è stato anche il cavaliere di Ladyhawke, il grottesco reduce non vedente di Furia cieca, l’autostoppista piscopatico di The Hitcher, il premiatissimo protagonista al Seattle Film Festival nella «Leggenda del santo bevitore» di Ermanno Olmi, che vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1988, e poi il Federico Barbarossa di Martinelli, e ha fatto 170 film, eppure quel volto spigolosamente ariano, quel monologo, quello sguardo con gli occhi di ghiaccio, hanno finito per segnare non solo tutta la sua vita. Ma anche la sua morte. Ed è inutile cercare un senso a tutto questo. Come fece Ridley Scott, quella volta. La colomba bianca?, gli chiese. Sì, disse Rutger, vedrai che viene bene. E scese la pioggia, come lacrime sul tempo che finisce.

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