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Descrizione di un dipinto immaginario. La penna di Julien Gracq è come un pennello

Alessandro Papetti, Riflessi nell'acqua immobile Alessandro Papetti, Riflessi nell'acqua immobile
Alessandro Papetti, Riflessi nell'acqua immobile
Alessandro Papetti, Riflessi nell’acqua immobile

La riva delle Sirti di Julien Gracq è un romanzo misterioso, le cui vicende editoriali sono interessanti quanto quelle narrative. Tra scontri sopiti e inquietudine esistenziali trova spazio una fantastica descrizione di un dipinto immaginario.

“Bruma” è forse la parola più utilizzata da Julien Gracq nel romanzo La riva delle Sirti. E probabilmente il sostantivo ben si adatta sia alla narrazione misteriosa e sospesa del racconto che alla vicenda editoriale piuttosto controversa. Pubblicato in Francia all’inizio degli anni ’50 il romanzo riscosse un grande successo, soprattutto da parte della critica, tanto che si aggiudicò il prestigioso premio letterario Goncourt nel 1952. Ed è di fronte a questo grande riconoscimento che la storia si incrinò: Gracq rifiutò il premio, tenendo fede alle forti critiche che aveva rivolto solo pochi mesi prima ai meccanismi inquinati dei premi letterari. Questo favorì una rapida traduzione e diffusione del libro, tanto che nel 1952 arrivò anche in Italia, ma successivamente contribuì a relegarlo nell’ombra, ammantato di fascino e sospetto.

Peter Doig, Milky Way
Peter Doig, Milky Way

Dello stesso diffuso mistero è composto il romanzo, metafisica narrazione che mette in scena un surreale fronte di guerra che contrappone la Repubblica di Orsenna al Farghestan. Tra i due schieramenti si pone un mare grande e calmo, immutabile come la pace apparente che paralizza i due paesi da molto tempo. Una guerra sopita, ma mai ufficialmente conclusa. In questa paradossale e inquieta stasi si muove Aldo, il protagonista, giovane aristocratico catapultato ai limiti di Orsenna, unico luogo da cui è possibile scorgere il dimenticato paese nemico. In questa attesa ricca di presagi che aleggiano nella nebbia, l’autore descrive con potente suggestione la decadenza e la speranza di un paese, l’inquietudine e il desiderio di vita di ogni uomo.

Edvard Munch, Chiaro di luna
Edvard Munch, Chiaro di luna

In questo romanzo estatico dall’ampissimo respiro evocativo, riedito per l’Italia da L’orma editore nel 2017, trova spazio anche la descrizione di un dipinto immaginario. Ad essere ritratto è Piero Aldobrandi, lo storico disertore di Orsenna che aveva combattuto per il Farghestan ai tempi di una celebre spedizione. La precisa analisi del quadro riesce ad immergere il lettore nella coltre di suprema angoscia che aleggiava durante la guerra, la cui ombra ancora si aggira per Orsenna.

Julien Gracq, La riva delle Sirti, L'orma editore
Julien Gracq, La riva delle Sirti, L’orma editore

Il dipinto ha anche un pittore: il Longone. Celebre ad Orsenna per i suoi quadri cupi e tormentati, ha realizzato il ritratto di Piero Aldobrandi a soli 24 anni. La sua opera non ha mai visto la luce – anche perché lui non è mai esistito – ma quella di Julien Gracq si. E il suo talento letterario sembra dipingere questo ritratto meglio di un pennello:

“Le ultime pendici boscose del Tängri, scendendo fino al mare in molli profili formavano lo sfondo del quadro. L’ingenua e disinvolta prospettiva, tutta aerea, scorciava la vetta della montagna, le cui linee direttamente raccordate alla sua base suggerivano tuttavia l’imminenza, l’enormità vivente della sua massa, come se lo schiacciante colpo d’artiglio d’una zampa gigantesca fosse piombato sul quadro, tuffandosi dal bordo superiore della cornice, giù fino al mare. Sulla riva del mare, il vivo sole d’un pomeriggio scintillante faceva risplendere nel calore l’anfiteatro della casa e delle mura della città, come un miraggio sospeso sul liquido elemento. Rhagi appariva come sorpresa nell’amoroso torpore della siesta, con i capricciosi sbadigli errabondi delle sue terrazze, la dolce attività da sonnambuli dei minuscoli personaggi che camminavano qua e là per le vie; mentre una ricca pelliccia di fiamma dalle volute stilizzate faceva tutto un cerchio intorno alla città assediata.

L’impressione di turbamento che dava quel quadro di massacro dipendeva appunto dal carattere straordinariamente naturale, perfin riposante, che la serena crudeltà dell’autore aveva saputo conferire alla pittura. Rhagi bruciava così come un fiore che si sfoglia, senza strazio senza dramma: piuttosto che un incendio, si sarebbe detto la placida invasione, l’avidità tranquilla d’una vegetazione più ghiotta, una specie di cespuglio ardente, che cingesse e incoronasse la città, l’accesa corona dei petali di una rosa intorno a un formicolare di insetti dentro il suo calice. La flotta di Orsenna era schierata in semicerchio al largo della città;  ma benché un muro di placido fumo si elevasse a pesanti pennacchi dalla superficie del mare, più che al lacerante fragore delle artiglierie si era tratti a pensare a qualche cataclisma pittoresco, quasi turistico, al Tängri risvegliato che si fosse rimesso a far fumigare le sue lave nelle acque del mare.

E così tutta quella cinica naturalezza, che il solo fatto della distanza può far sorgere dallo spettacolo della guerra, rifluiva dal resto del quadro per venire ad esaltare il sorriso indimenticabile di un volto, che sporgeva come un pugno teso dalla tela, e sembrava volesse addirittura uscire dal primo piano del quadro. Piero Aldobrandi, senza casco, con la sua corazza nera, il bastone la sciarpa rossa del supremo comando che lo legavano per sempre a quella scena di massacro.  Ma la sua figura, volgendo la schiena a quello spettacolo, diluiva va con un gesto nel paesaggio, e il suo viso teso da una visione segreta era come l’emblema di un soprannaturale distacco. Gli occhi socchiusi, con uno sguardo stranamente interiore, erano immersi come una estasi breve: un vento più lontano di quella del mare agitava i ricci dei suoi capelli, ringiovaniva tutto il suo viso con un tocco di castità selvaggia.  Il braccio d’acciaio brunito dei lucidi e cupi riflessi elevava in un gesto assorto la sua mano all’altezza del viso. E fra le punte delle dita del suo guantone di guerra, dal duro dorso chitinoso delle crudeli ed eleganti articolazioni da insetto, in un gesto di grazia perversa e quasi amorosa, come per aspirarne con le narici pagamenti l’ultima goccia di profumo,  le orecchie insensibili al tuonar dei cannoni, egli schiacciava un fiore sanguinoso e spesso:  la rosa rossa dello stemma di Orsenna”.

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