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Cultura al potere. Intervista al Professor Sacco, da Milano ad Harvard per salvare il patrimonio italiano ed europeo

Pierluigi Sacco

Pierluigi Sacco

Oggi al Motel abbiamo ospite il Professor Pierluigi Sacco. Ci conosciamo da tanti anni e personalmente ci vogliamo bene.

La nostra amicizia è iniziata anni fa e si è evoluta nel digitale, attraverso i tanto bistrattati social. Se avete voglia, seguitelo, perché raramente fa un post su Facebook non centrato. Il suo obiettivo è fare economia con la cultura, a 360 gradi. I suoi sforzi si declinano in tante direzioni diverse quindi fare un elenco sarebbe riduttivo. In ogni caso non c’è solo accademia nel suo approccio ed è per questo che l’ho fortemente voluto ospite al Motel.
Per la sua concretezza, per la sua voglia inesauribile di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.
Specialmente dopo questa ennesima tornata elettorale in cui, di cultura, si parla veramente pochissimo. E lui vi spiega invece perché proprio la cultura ci può salvare. Buona lettura.
Purtroppo, anche lui, è astemio.

 


Benvenuto al Motel, Pier. Da tanti anni ti occupi di Economia della Cultura per Università italiane e anche attraverso alcune incursioni ad Harvard, dove sei stato chiamato. Situazioni nazionali a latere, perché dovrebbe passare il messaggio che è importante l’investimento in cultura?

Perché dovrebbe essere fin troppo evidente che la cultura oggi genera economie come poche altre aree dell’attività umana se considerata dalla giusta prospettiva. La cosa che mi stupisce sempre è come si faccia a dubitare dell’impatto economico della cultura quando le più grandi aziende del mondo hanno modelli di business in cui il ruolo della cultura è evidente: basti pensare ad Amazon che ha costruito un impero del retail digitale partendo dai libri; Apple che non soltanto ha creato uno dei più grandi marketplace digitali per i contenuti culturali a partire dalla musica, ma deve una parte importante del suo successo di mercato alla eccezionale facilità con cui permette agli utenti di creare ogni tipo di contenuto multimediale, o a Google e al suo investimento strategico nella digitalizzazione del patrimonio culturale che ha portato all’apertura di un progetto specifico Arte & Cultura. Se poi pensiamo a Facebook, dobbiamo renderci conto che per quanto vituperati, i social media sono anche e in primo luogo una piattaforma per la produzione e la diffusione dei contenuti culturali. Che poi questi contenuti siano in buona parte selfie o foto di cene al ristorante o di gattini non deve fuorviarci: siamo ancora nella primissima infanzia delle piattaforme digitali, e il loro potenziale è ancora largamente inesplorato. Come sempre, quando si impara ad usare una nuova tecnologia si fanno tanti errori, ma impareremo come abbiamo sempre imparato in passato, anche se non a costo zero. Sarebbe come voler giudicare il cinema da quel che era nella prima fase eroica della nascita degli studios hollywoodiani.

Più in generale, non sembriamo renderci conto che è vero che esistono settori della cultura che non sopravviverebbero senza sussidi pubblici o privati – e questo accade soprattutto per i settori che non possono essere organizzati industrialmente, come gran parte delle arti visive, dello spettacolo dal vivo, e dei musei e del patrimonio storico-artistico – ma in via di principio siamo qui di fronte ad una situazione simile a quella della ricerca di base, che non sopravviverebbe senza sussidi ma da cui dipende anche tutta la filiera della ricerca applicata e del trasferimento tecnologico. In un certo senso, i settori culturali sussidiati sono anche quelli dove si producono le innovazioni culturali più radicali, e questo accade proprio perché sono meno esposti alle pressioni di mercato. Insomma, c’è ancora tanto da fare per far capire quanto è importante la cultura per le economie contemporanee, e per quella di un Paese come il nostro in particolare. Ma bisogna prima di tutto iniziare a guardare nella direzione giusta, che non è tanto quella della ‘valorizzazione’ (se non in seconda o terza battuta) ma quella dell’innovazione a base culturale.

 

Il Lucca Comics in una settimana fa circa la metà dei visitatori della Biennale d’Arte, che dura 6 mesi. Quando è successo che l’arte si è allontanata così tanto dal pubblico?

Al di là degli straordinari numeri di affluenza, Lucca Comics & Games costruisce il suo successo con una politica di coinvolgimento estremamente attiva ed efficace: ha una comunità virtuale su Facebook di oltre 250.000 fan, pubblicando quasi 3 post al giorno di media, ciascuno dei quali si avvicina ad una media di 200 interazioni. E’ una espressione ‘nativa’ della cultura della partecipazione digitale e ne utilizza al meglio il potenziale. E ciononostante, abbiamo scoperto con una ricerca ad hoc che anche i lucchesi che vanno a Lucca Comics e lo apprezzano, quando gli si chiede se a loro parere si tratta di un evento coerente con l’identità culturale della città spesso rispondono che non lo è, e che in ultima analisi si pone in contraddizione con l’identità culturale ‘storica’ della città. Noi italiani facciamo ancora troppa fatica a mettere sotto un unico tetto la dimensione storica della cultura e quella contemporanea, anche quando le apprezziamo tutte e due. La Biennale è un po’ il simbolo di questa contraddizione: ha una lunga storia, e deve fare il punto sullo stato della ricerca artistica contemporanea. E’ cultura storicizzata e contemporanea allo stesso tempo, e parla inevitabilmente ad un pubblico più ristretto, ma non per questo circoscritto alla cerchia degli ‘addetti ai lavori’, anzi. Va comunque detto che in questi anni si va affacciando una nuova sensibilità da parte di molti artisti contemporanei, soprattutto nelle generazioni più giovani, che sposta il centro poetico della pratica artistica verso la creazione di legami sociali con le comunità più varie e spesso marginali, e per quanto non sempre si tratti di operazioni pienamente centrate e riuscite questa è una novità importante, ed è un mutamento di lungo termine, non una moda effimera. Per cui se vogliamo cercare delle situazioni nelle quali l’arte si riavvicina alla vita quotidiana dovremmo forse guardare più alle pratiche artistiche nello spazio pubblico e non solo a quello che accade negli spazi istituzionali dell’arte, la cui missione non si può (e non si dovrebbe) sempre esaurire nell’attrarre più pubblico possibile, ma comprende anche la necessità di fare ricerca, e quindi di esplorare strade nuove con la libertà di poter sbagliare – se non si sbaglia abbastanza è difficile riuscire a coltivare le innovazioni radicali che quando funzionano trasformano davvero il modo in cui stiamo al mondo.

 

Pierluigi Sacco 

Siamo il primo paese al mondo per siti Unesco, 53. La Cina, seconda, ne ha meno di 50. Eppure non abbiamo ancora capito che è questo il nostro patrimonio più grande, come mai?

In Italia questa storia della conta dei siti Unesco (e la sua gemella cattiva, la leggenda urbana delle percentuali astronomiche di patrimonio culturale mondiale che l’Italia possiederebbe, e che è appunto una leggenda urbana senza senso né fondamento perché riguarda percentuali che semplicemente non si possono calcolare) piace molto. Ma quello che non si capisce è che un grande patrimonio è soprattutto una grande responsabilità, e un grande centro di costo: mantenerlo richiede tante risorse, e soprattutto impiega più risorse di quante ne possa generare, con buona pace degli aedi del ‘petrolio dell’Italia’. Non a caso, purtroppo molto di questo patrimonio sta andando in rovina sotto i nostri occhi senza che si faccia molto per impedirlo. In sostanza, ci vantiamo di qualcosa che poi lasciamo andare in malora. Il primo passo per cambiare mentalità è quindi quello di smettere di pensare che il patrimonio storico sia una miniera d’oro che dobbiamo limitarci a sfruttare (non lo è). Il patrimonio, se opportunamente salvaguardato, vissuto e accresciuto con nuove realizzazioni contemporanee, può e dovrebbe essere una risorsa per aiutarci a vivere e capire meglio il mondo in cui viviamo, per avvicinarci alla cultura prima di tutto per migliorare la nostra qualità della vita, per renderci più curiosi e più attenti verso il mondo che ci circonda. Il vero impatto economico della cultura non deriva dai ricavi dei biglietti staccati nei musei o nei teatri e nemmeno dagli incassi al botteghino del cinema. Deriva piuttosto dai cambiamenti comportamentali che suscita in noi, migliorando il nostro benessere psicologico (e a volte persino la nostra salute), la nostra capacità innovativa, la nostra coesione sociale, persino la nostra sensibilità verso le sfide ambientali. Tutti questi effetti della cultura, che hanno potenzialmente un impatto economico e sociale enorme e che stiamo imparando a misurare sempre meglio dal punto di vista scientifico, sono in grado di cambiare un Paese se diventano il centro di un nuovo modo di intendere la politica culturale. E’ la strada che sta iniziando a percorrere l’Europa, grazie alla Nuova Agenda Europea per la Cultura, un documento breve ma rivoluzionario che ispirerà un nuovo ciclo europeo di iniziativa culturale ad alto impatto sociale ed economico. E’ una sfida che dovrebbe vedere l’Italia in prima fila, perché pochi Paesi potrebbero interpretarla in modo innovativo e beneficiarne più di noi – basta guardare alle tante sperimentazioni dal basso attive sul nostro territorio, e di cui non parla quasi nessuno, soprattutto nei media che sembrano in cerca soltanto di emozioni negative e di prospettive pessimistiche sul futuro del nostro Paese.

 

In bullet points (all’inglese), la ricetta Sacco per migliorare il nostro Ministero dei Beni Culturali?

 Non credo molto nelle ricette. Però ci sono alcuni punti tra tanti che forse meriterebbero più attenzione.
* Più attenzione e risorse per il patrimonio culturale delle aree interne e dei centri minori, non in una mera funzione di salvaguardia ma di riattivazione civica e sociale;
* Più attenzione alle pratiche di innovazione sociale a base culturale che fioriscono dappertutto in Italia, spesso su iniziativa di giovani molto qualificati che vorrebbero costruire qualcosa di importante per il loro territorio ma sono abbandonati a sé stessi;
* Lavorare in stretta sinergia con tutti gli attori delle politiche di coesione territoriale per migliorare drasticamente la qualità della progettazione e della capacità di spesa in ambito culturale, incoraggiando un ruolo più centrale della cultura ad impatto sociale ed economico nelle strategie di specializzazione intelligente delle regioni (al momento spendiamo poco e male le tante risorse che ci sarebbero);
* Fare del rapporto tra patrimonio (tangibile ed intangibile) e sfera digitale un’area centrale di innovazione e sviluppo imprenditoriale per cui puntare ad un posizionamento di eccellenza su scala globale (le competenze ci sarebbero tutte, e il patrimonio su cui lavorare anche);
* Fare dei livelli di partecipazione culturale su scala nazionale e locale (sia in termini quantitativi che qualitativi) la variabile di riferimento delle nostre politiche culturali, fuggendo dalla trappola della conta degli ingressi e lavorando invece sulla diffusione di modalità di accesso culturale sempre più inclusive, motivate e consapevoli;
* Promuovere la ricerca artistica contemporanea con particolare attenzione verso le forme di sperimentazione più difficili da inquadrare per il loro carattere radicale ed interdisciplinare. Molte non porteranno a niente, ma alcune potrebbero aprire nuove orizzonti in tante direzioni diverse (innovazione linguistica, impatto sociale, creazione di valore economico nei settori produttivi più disparati). Ci piace tanto riempirci la bocca di Rinascimento ma se davvero vogliamo fare qualcosa di ‘rinascimentale’, la strada da percorrere è appunto l’innovazione radicale. Nell’Italia di oggi, se fosse nato un Leonardo contemporaneo con tutta probabilità l’avremmo fatto emigrare visto i rifiuto generalizzato che manifestiamo verso tutto ciò che non è familiare e che non rassicura le nostre paure. La committenza rinascimentale si assumeva dei livelli di rischio che oggi nessuno sarebbe disposto ad accettare, dando spazio e credito a personalità artistiche estremamente complesse e controverse, ovvero l’esatto contrario di quel che accade nell’Italia di oggi.

Potrà sembrare strano che non parli invece di strategie di sostegno alle industrie creative e a tante altre cose di cui oggi si discute tanto. Il mio punto è semplicemente che se manca il contesto giusto, possiamo adottare tutte le strategie di promozione e sostegno che vogliamo ma non saranno socialmente sostenibili prima ancora che economicamente. Quindi lavoriamo appunto prima sul contesto. E il contesto attuale è che l’Italia ha attualmente dei tassi di partecipazione culturale inferiori alla media europea, e proprio per questo non capisce e non apprezza il ruolo che la cultura potrebbe e dovrebbe avere nella costruzione di un progetto di futuro per il nostro Paese. Quindi se non risolviamo questo problema non andiamo da nessuna parte.

  

E’ arrivato il momento del drink Professore, cosa beve?

Un’acqua tonica col limone, grazie. Come sa chi mi conosce, non bevo nessun tipo di alcol perché quando avevo poche settimane di vita mia nonna ha pensato bene di tenermi a bagno nel vino rosso con sessioni giornaliere, per sistemare non ben precisati problemi di pelle. Era una signora piuttosto originale, in effetti. Non deve essermi piaciuto, e devo aver fatto il pieno una volta per tutte. Tipo Obelix, insomma. Per cui, acqua tonica. Senza gin, grazie.

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