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Alla conquista di Milano: il libro del sake e degli spiriti giapponesi

Nel 2019, a Milano, possiamo dire che il sake giapponese non è più un mistero? Magari sì, visto che la metropoli lombarda dà quotidiane dimostrazioni di voler essere una capitale della buona tavola, ma c’è ancora una serie di miti da sfatare. Anche a questo può servire un testo come “Il libro del sake e degli spiriti giapponesi” (edizioni Gribaudo), delle giornaliste/scrittrici Stefania Viti e Miciyo Yamada.

“Non è più un perfetto sconosciuto, il sake,” precisa Stefania Viti durante la presentazione milanese del libro, “ma credo che ancora troppo poco si sappia del procedimento di produzione, della ritualità che lo accompagna, della cultura che in esso si rispecchia, della funzione che questa bevanda svolge. Partiamo proprio da qui: il sake è funzionale alla condivisione. Ed è per questo che si versa da un contenitore piccolo (tokkuri) in una tazzina piccola (choko), in modo da servirlo più volte e da aumentare il numero d’interazioni a tavola. Perché il sake si beve a tavola, in genere, e questa è un’altra cosa da chiarire: in Giappone è raro che sia usato come bevanda da meditazione, deve accompagnare le varie pietanze e sottolinearne delicatamente il sapore. Ho fatto tutto uno studio, in un libro precedente, per mettere in luce che il sake serve a far apprezzare meglio le sfumature di sapore dei tipici cibi giapponesi. Nel suo paese d’origine, inoltre, non viene servito come aperitivo: si comincia con la birra, e si va avanti con la preziosa bevanda di riso quando arrivano in tavola le portate principali. Chiariamo, infine, che non va bevuto per forza caldo: si può degustare a tutte le temperature, fra i 5 e i 55 °C, dipende dalle diverse tipologie di sake e dalle occasioni”.

Alla galleria dei fondamentali potremmo aggiungere che non si tratta di un distillato (l’aspetto trasparente potrebbe ingannare) ma di un fermentato. Lo chiamano vino di riso, e a ben vedere qualche vaga somiglianza c’è, anche se l’autrice sente il bisogno ancora una volta di mettere i puntini sulle i. Il riso, levigato per eliminare le parti più esterne, viene lasciato in ammollo in acqua e poi cotto al vapore. A questo punto si aggiunge una muffa (Aspergillus oryzae), per saccarificare gli amidi del riso, e dopo la trasformazione ancora acqua e fermenti, per convertire gli zuccheri in alcol. Dopo un ulteriore periodo di fermentazione, variabile da produttore a produttore, il composto viene pressato, filtrato e lasciato riposare per alcune settimane o mesi, prima di essere imbottigliato. Il tenore alcolico in genere varia tra i 13 e i 17 gradi.


Con un linguaggio divulgativo quel tanto che basta, Stefania Viti ripercorre tutto il viaggio storico del sake, ricco di magia e mistero, mettendo insieme miti e leggende, classificazioni e nomenclature, tecniche di produzione, uso a tavola e nei cocktail, pareri di esperti, sommelier e bartender. Non manca una sezione dedicata all’ “altro” bere giapponese che, oltre ai distillati autoctoni shochu e awamori, include birra, rum, whisky e gin, tanto per smentire l’ennesimo mito, duro a morire: quello dell’isolazionismo nipponico. Siamo invece di fronte ad una società che continuamente accoglie e metabolizza influenze esterne alle proprie tradizioni, fino al punto da mettere in discussione le proprie. Pare infatti che la cultura del sake sia in declino, presso i giapponesi, e che tante piccole cantine (su un totale di quasi 1.400) siano in crisi e debbano fronteggiare un consumo interno che cala lentamente ma stabilmente. E quindi esportare in USA e in Europa può essere una valvola di sfogo significativa, in funzione dell’espansione oltreconfine, specialmente in Italia, ove la gastronomia e la cultura nipponica sembrano godere della spinta favorevole post-Expo 2015. “Il libro del sake e degli spiriti giapponesi” si chiude con un’ampia galleria, molto ben illustrata, di cocktail variopinti e voluttuosi, ornata di tutte le sfumature di ingredienti che si possano desiderare, esotici e no.

Il cocktail sta salendo di livello e di notorietà, com’è noto, e forse diventerà un refrain della parlata milanese al pari di “apericena” e “mitico”. È questa una buona notizia anche per i buongustai e per i nippofili, come Stefania Viti, che avranno uno strumento in più: sia per districarsi nel vasto panorama dei miti da sfatare, sia per dare risalto alle tradizioni millenarie del Sol Levante, in tutta la loro ricchezza storico-culturale.

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