Print Friendly and PDF

Pussy Riot: vittoria (di Pirro?) contro la Russia, multata per violazione dei diritti umani

Pussy Riot

Pussy Riot

La Corte Europea per i diritti umani di Strasburgo ha stabilito di condannare la Russia a pagare 55 mila dollari a tre attiviste del gruppo Pussy Riot, per il loro arresto e l’ingiusta detenzione, avendo ritenuto quelle misure «eccessivamente severe».

Detto così, sembra finalmente «una buona notizia», come ha scritto su twitter Maria Masha Alyokhina, cantante e leader della band femminista che ha fondato assieme a Nadya Tolokonnikova, tutt’e due finite in carcere con Katya Samutsevich il 21 febbraio del 2012, dopo aver inscenato una sorta di preghiera punk nella Cattedrale di Cristo Salvatore, «Madre di Dio ti prego, manda via Putin». In realtà, di fronte al dolore e alla violenza subita, all’ennesimo strangolamento di qualsiasi espressione artistica, quei soldi sembrano appena una mancia per lenire l’ingiustizia, sempre ammesso che poi vengano versati davvero, visto che la Russia si è già affrettata a presentare ricorso.

Pussy Riot
Pussy Riot nella Cattedrale di Cristo Salvatore

D’altro canto, il Cremlino ha sempre bollato come gravi «interferenze negli affari interni» tutte le critiche piovute da Strasburgo in questi ultimi tempi contro «la legislazione repressiva» adottata dal regime di Putin, che «ha drasticamente ridotto la libertà di espressione e minato alla base i diritti umani con una serie di norme tese a limitare anche la libertà di associazione e riunione, ostacolando il ruolo della società civile e soffocando l’iniziativa e la creatività».

Il monito era del 2016. Non è che le cose siano cambiate da allora. Anzi, gli osservatori internazionali hanno continuato a compilare una lista infinita di abusi di ogni tipo, dalla confisca della proprietà privata alle detenzioni illegali, fino ai «trattamenti inumani come le torture».

Quando Maria Alyokhina e Nadia Tolokonnikova uscirono dal campo di prigionia della Mordovia nel dicembre 2014, descrissero i loro 22 mesi trascorsi in quelle mura come un vero e proprio incubo dentro a «un mondo infernale di schiavitù e abusi». Maria e Nadia sono diventate famose e le loro canzoni sono state un successo internazionale. Per questo anche fuori dai confini della Madre Patria, i media internazionali si occuparono della loro vicenda. All’epoca del loro arresto un articolo del The World Post raccontava tutte le persecuzioni attuate nei confronti degli artisti russi e di un certo numero di musicisti.

Pussy Riot
Nadežda Tolokonnikova, condotta alla sbarra davanti alla corte distrettuale di Taganskij

Strasburgo sottolineava in un altro documento come un sistema di giustizia disfunzionale neghi a ogni cittadino il diritto a un processo equo e ponga le minoranze, «come i gay, e anche le donne», in una posizione di forte svantaggio. Il fatto è che quando cancelli la libertà di espressione, i primi a rimetterci sono sempre i più deboli. L’arte è molte volte la sentinella di un mondo sconfitto, la testimonianza della nostra fatica di vivere. «Le più belle opere degli uomini sono ostinatamente dolorose», diceva André Gide.

Ma può anche capitare che sia la tua vita l’opera più grande. Maria Alyokhina ha costruito questo, assieme alle sue poesie e alle sue canzoni, prima con Greenpeace e poi da studentessa al corso di giornalismo, dopo aver fondato nel 2011 le Pussy Riot.

Quando la arrestarono con Nadia e Katya il 21 febbraio del 2012, le condannarono per «teppismo e istigazione dell’odio religioso». Amnesty International le definì «prigioniere di coscienza». Lei non si fermò davanti a niente. In aula afforntò a testa alta i suoi giudici: «Io non ho paura di voi. Io non ho paura delle bugie e della finzione, della frode camuffata nel verdetto di questo tribunale. Perché voi potete privarmi solamente della mia libertà fisica. Ma nessuno può togliermi la mia libertà interiore. E la libertà è una cosa bellissima. Io sono libera. Voi no. Io continuerò a dire quello che penso. Voi non potete. Direte solo quello che vi è permesso».

Pussy Riot
Nadezhda Tolokonnikova in carcere, foto del 25 settembre 2013 (Credits: Getty Images)

I 22 mesi passati in cella nell’istituto di pena della Mordovia però sono stati terribili. «Quando sono stata trasferita per la prima volta dalla prigione di Mosca al campo di prigionia ho pensato che forse non sarebbe stato così male», disse Nadia Tolokonnikova il giorno della sua liberazione. «Ma poi mi sono ritrovata di fronte all’inferno». Le prigioni russe, spiegò Maria, «sono posti dove tutto viene fatto per distruggere ogni senso di umanità».

Le due Pussy Riot fecero anche uno sciopero della fame: «Non voglio rimanere in silenzio a guardare le mie compagne prigioniere collassare sotto il peso di condizioni simili alla schiavitù. Lavoriamo 17 ore al giorno, dalle 7 e 30 di mattino a mezzanotte e mezzo. Abbiamo un giorno libero solo dopo un mese e mezzo di lavoro. E lavoriamo tutti i giorni, compresa la domenica. Subiamo punizioni senza motivo, costrette a rimanere in un corridoio all’aperto fino all’alba, anche d’autunno e d’inverno. Una volta per congelamento a una donna hanno dovuto amputare le dita di un piede. Non ti puoi fermare sul lavoro. Se ti fermi sono previste le percosse».

Uscite da quell’incubo, Nadia e Maria hanno fondato un’associazione per difendere i diritti dei detenuti nelle carceri russe. Forse è l’arte che difende se stessa. Perchè in fondo la libertà è un’arte. La verità è che l’arte non si può separare dalla vita, come diceva Robert Henri, grande pittore del realismo americano. «E’ l’espressione della più grande necessità della quale la vita è capace».

Pussy Riot
Le Pussy Riot a Lobnoe mesto, sulla Piazza Rossa

Commenta con Facebook

leave a reply

*