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Ai margini del bianco. La pittura di Antonio Pedretti tra figurazione e informale

Antonio Pedretti

Antonio Pedretti

Continua fino al 23 settembre la mostra di Antonio Pedretti “Ai margini del bianco”, a Palazzo Ducale  di Genova

La definizione “Ai margini del bianco” esprime in modo evidente il risultato estetico e filosofico della pittura di Antonio Pedretti dopo cinquant’anni di ossessiva misurazione del paesaggio, soprattutto lombardo, una acribiosa perlustrazione fisica e metafisica della realtà che lo ha circondato, condotta con la fiducia che, al fine, si potesse davvero cogliere quell’inesprimibile porzione di natura e di sé che muta col mutare della luce e delle stagioni.

E’ stato uno sforzo dell’apparato motore dell’occhio, immaginiamo sovrumano, perché si è trattato non tanto di vedere fuori – l’en plen air è quanto di più lontano possibile dalla tecnica del pittore varesino – ma di guardare all’interno strabuzzando i bulbi oculari fino a renderli perfette macchine di riproduzione del di dentro, di quello che il riduzionismo psicologico definirebbe inconscio, e la religione più poeticamente anima. Nella tensione tra dentro e fuori, tra fisica e metafisica, tra inconscio e anima, si accampano dunque panorami che sono frutto di una lotta, prima ancora che di una visione.

E’ chiaro – lo spiega lo stesso Pedretti – che il rapporto quotidiano con la tela sia conflittuale, e non è un caso che la figurazione tenda all’informale, così che il gesto di dire, subito tutto e con foga, sopravanza la compostezza della composizione, ne corrode ogni liminale residuo lirico. Qualcosa urge e torce l’artista, stravolge il tappeto consunto del mondo, e ogni rappresentazione diventa innanzitutto una trasfigurazione.

Antonio Pedretti

Il termine “margine” porta con sé numerosi significati: dal punto di vista topografico indica la periferia, dal lato esistenziale connota la marginalità di una cosa che non significa, si badi, la sua inutilità, piuttosto lo stare a lato, distaccata, una sorta di sprezzatura etica. Ma il margine può essere considerato anche una soglia da attraversare, un bordo che delimita un campo, un foglio, appunto una tela, un bordo da oltrepassare, e in questo senso si può capire che il margine sia in fin dei conti, almeno in campo geometrico, una semplice linea il cui spessore però non è dato conoscere.

Essere su la linea, sul margine, può significare a un tempo che è sufficiente un passo per andare oltre, o che invece il confine si prolunga e c’è il rischio di non vederne la fine: così ne hanno discusso Jünger ed Heidegger quando si è trattato di spiegare il nichilismo il cui superamento sembra prossimo e non lo è, un nichilismo che ammorba anche molta dell’arte contemporanea più cool, incapace di uscire dallo scontato gioco della dissacrazione, del brutto, dell’insensato. In Pedretti, al contrario, il senso della pittura è nella prossimità, nella vicinanza temporale e spaziale, anzi nell’approssimazione, cioè in una vicinanza incolmabile, e ogni tentativo non può che essere approssimativo proprio perché ogni avvicinamento è la consapevolezza di un non raggiungimento.

Essere “ai margini del bianco” non significa neppure che si tende al bianco, ad una privazione minimalista, o ad una afasia, poiché nell’essenza multicolore del bianco proprio dal bianco per forza centripeta esplodono tutti gli altri colori che però non si emendano mai da quella primigenia unità e densità, una vischiosa prima materia. Come nel caso di Pedretti i colori non diventano mai puri, pagando la vicinanza al bianco.

Antonio Pedretti

Tutto quello che avviene nella pittura di Pedretti sta dunque ai margini del bianco. I suoi panorami estesi, o le micro vedute, principiano dal bianco e nel bianco sembrano doversi sgretolare; e uno dopo l’altro nella loro approssimazione a un ideale, nel loro approssimarsi, compongono il paese, la patria del pittore. Come William Faulkner che si inventa Yoknapatawpha, la contea immaginaria del sud degli Stati Uniti in cui vengono ambientati tutti i suoi racconti, ed è una sovrapposizione immaginaria a un luogo reale, così Pedretti disegna una propria heimat, quadro dopo quadro, senza tema di ripetersi, quasi volesse riprodurre, standoci dentro, la mappa 1:1 di quel dato luogo. Ma chi conosce lo scrittore Borges sa il paradosso che contiene questo desiderio descrittivo, poiché ogni mappa 1:1 riproduce il territorio sempre infedelmente, dato che la riproduzione ne modifica i contorni; e chi conosce il filosofo Josiah Royce sa anche che ogni mappa 1:1 dovrebbe contenere una mappa 1:1 che a sua volta dovrebbe contenerne un’altra ed un’altra ancora e ancora… in un regressus ad infinitum, quasi diabolico, senza via d’uscita.

La porzione di territorio di Pedretti è un lembo di alta Lombardia, annesso al lago di Varese, tra Gavirate, Bardello e la palude Brabbia, una zona lacustre di pochi chilometri, abitata fin dalla preistoria, gli insediamenti palafitticoli risalgono al Neolitico, che ha resistito alla temperie della contemporaneità, e presenta ancora una vegetazione quasi primordiale, i canneti, le erbe alte, gli alberi svettanti o rappresi a terra nel loro disfacimento, l’accumulo di materiale organico che ne ha fatto e ne farà torbiere.

Antonio Pedretti

L’accumulo di materia è una delle caratteristiche della pittura di Pedretti nel solco della tradizione di un naturismo lombardo che ha antesignani nobili e parenti più stretti, alla Morlotti, ma il gusto espressionista ricorda il quasi coetaneo Anselm Kiefer, il cui impegno è massimamente politico, concentrato su una dolorosa rielaborazione storica, mentre nel pittore varesino questa lunga concentrazione ha tratti soprattutto esistenziali, micro cosmici, se è vero che l’arte, focalizzando un punto, dovrebbe permetterci di guardare al di là di quel punto, il visibile pur piccolo dovrebbe essere semplicemente il supporto dell’invisibile più esteso, l’emanazione specchiata del mistero divino. E quand’anche nelle tele orizzontali il panorama si apre, dai boschi dipinti in primissimo piano si passa a una vasta pianura scialba, il tono non muta: cieli lividi, livido il terreno, come non esistesse altro colore che un sovrastante bianco sporco. Le colature sono il residuo di questo lavorio di erosione, i residui di un corpo a corpo tra sé e il fuori di sé, tra l’oggettivo e il soggettivo, tra l’essere e il nulla, tra la possibilità di rappresentare e il fallimento che sottende ogni cominciamento. Così si esprimeva Eliot nella sua “Terra Desolata” che per altri versi assomiglia a quella di Pedretti, poetica, ma non lirica, colta nel suo tragico sprofondare.

 

Antonio Pedretti – Ai margini del bianco

Palazzo Ducale, sala Liguria, Piazza Giacomo Matteotti 9, Genova.
dal 2 al 23 settembre 2018.
Orario d’apertura: da lunedì a venerdì 9:00 – 19:00, sabato e domenica 11:00 – 18:00

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