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La lezione di Stephen Hawking. «La scienza vincerà perché funziona»

Stephen Hawking

Stephen Hawking

 

«Siamo noi a creare la storia con la nostra osservazione», diceva Stephen Hawking. «Non la storia a creare noi». E se c’è uno che ha forgiato la sua vita anche contro il destino, che nel 1963 gli aveva dato solo due anni di sopravvivenza per via dell’atrofia muscolare progressiva, una sindrome correlata alla Sla, che gli avevano appena diagnosticato, questo è stato proprio lui. Si è arreso la mattina presto del 14 marzo. Aveva 76 anni. Ma per tutto questo tempo che si è conquistato, ha lottato amando la sua esistenza su una sedia a rotelle come nessun’altro, con la testa reclinata sulla spalla, senza poter parlare e potendo muovere soltanto gli occhi.

Era l’astrofisico più famoso del mondo, dieci milioni di libri venduti, docente di matematica a Cambridge, membro della Royal Society e premiato da Obama con la medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza degli Stati Uniti d’America. Il destino ha sempre giocato con lui: era nato 300 anni esatti dopo la morte di Galileo, l’8 gennaio 1942, ed è morto il giorno della nascita di Einstein.

Si era appena innamorato di Jane Wilde, un’amica di sua sorella Philippa, conosciuta a una festa, e i medici gli diagnosticarono la sua terribile malattia, dandogli non più di due anni di vita. Ma aveva questa tenacia incrollabile, questa passione per la vita, più forti ancora della sua unica religione: la scienza. E’ riuscito a fonderle, affrontando con gioia la sua esistenza dimezzata. Lo studio dei buchi neri gli ha dato gloria. E lui, poco prima di morire, a un convegno, li ha portati ad esempio a tutti quelli che come lui devono sempre camminare in salita: «I buchi neri non sono neri come li abbiamo dipinti. Non sono le prigioni eterne che un tempo pensavamo che fossero. Si può uscire da un buco nero, anche verso un altro universo. Quindi, se vi sentite intrappolati in un buco nero, non mollate, c’è sempre una via di uscita».

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Il suo vangelo è stata la scienza, forse proprio perché lo studio è diventato la grande alternativa al suo dolore. Era arrivato al punto, nel giugno 2012, di prestarsi come cavia in un progetto dell’Università di Stanford per uno scanner cerebrale che consente di tradurre in parole l’attività elettrica del cervello. Ha creduto nella vita e quindi nel valore della scienza per lo sviluppo della specie umana: perché grazie ad essa possiamo svelare i nostri misteri e migliorarci. Alla fine, il suo era quasi un ateismo sacrale, che rivendicava in ossequio al positivismo dello studio e del sapere. In un suo libro ha sostenuto che Dio non può conciliarsi con la scienza, e che sono perfino in contraddizione. L’universo non è stato creato da Dio. «C’è una enorme differenza fra la religione che è basata sull’autorità e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento. La scienza vincerà perché funziona».

Forse, nel suo incrollabile ottimismo, Hawking ci ha lasciato il messaggio di chi guarda solo una faccia della medaglia, e in fondo non crede alla malvagità dell’uomo, capace di sfruttare gli studi e le scoperte per meri scopi distruttivi. Certo, anche Stephen Hawking era spaventato dai pericoli che corre l’umanità e più di una volta ci ha messo in guardia dalla distruzione dell’ambiente, prima di tutto, dai rischi di una guerra nucleare e dall’incubo di una intelligenza artificiale che possa ritorcersi contro l’uomo che l’ha creata. Ma uno come lui, che ha trovato sempre dentro di sé la forza di combattere il destino, di fidanzarsi un anno dopo che gli avevano tolto ogni speranza, e poi sposarsi e fare tre figli, e non smettere mai di studiare, costretto a comunicare soltanto con un sintetizzatore vocale, prigioniero di una sedia a rotelle nell’immobilità totale, non poteva non guardare il mondo se non con il coraggio della sua volontà. Ha detto una volta che per combattere le sue battaglie, la prima cosa che ha dovuto fare è vincere la rabbia del suo dolore. Non serve la rabbia se vuoi costruire. Ed è questo il suo insegnamento. La scienza al servizio degli altri per migliorare l’uomo.

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Tre cose dovete imparere, diceva ai suoi figli, tre cose non dovete mai dimenticare: «Uno: Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi. Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare e in cui si può riuscire. Due: non rinunciate al lavoro. Il lavoro vi dà uno scopo e senza di esso la vita è vuota. Tre: se avete la fortuna di trovare l’amore, ricordatevi che esiste. Non buttatelo via».

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