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La bellezza dell’abbandono nelle fotografie di Nicola Bertellotti

À rebours
À rebours
À rebours

Nicola Bertellotti è nato a Pietrasanta (LU) nel 1976. Ha cominciato a fotografare una decina di anni fa, da autodidatta, attratto dal trattenere la memoria delle proprie esperienze di viaggi. Studia all’Università di Pisa “Storia” e lì cresce e si radica la sua passione verso la bellezza dell’abbandono.

Nicola Bertellotti

Che cos’è per lei FOTOGRAFIA.
La fotografia è il mezzo che mi permette di risolvere l’enigma che si frappone ogni volta tra me e il soggetto. Ciò che mi muove è l’amore per quello che vedo, non potrei soffermarmi su qualcosa che non senta intimamente mio. Ho scelto la fotografia, ma se avessi avuto un talento specifico, avrei scritto o magari dipinto quello che riesce a dissodarmi nel profondo. Mi interessa il racconto, le storie che filtrano dalle immagini. Le fotografie come quelle capsule del tempo seppellite vicino agli alberi che fanno riaffiorare (micro) mondi dimenticati.

Zugunruhe

Cosa sviluppa e perché attraverso la fotografia.
Nella mia ricerca fotografica vi è la celebrazione di una spazialità “affettiva”, che, basandosi sul ricordo, è popolata da rovine. È in virtù della loro cessata funzionalità, del loro degrado che gli ambienti che riproduco si offrono quali metafore dell’abbandono. Attraverso la composizione indago così l’oblio in cui sono caduti alcuni spazi caratteristici del nostro vivere quotidiano: palazzi, ospedali, fabbriche, cinema, chiese… Ma quel che emerge nella mia estetica è la nostalgia del paradiso perduto e la riproposizione in chiave fotografica della poetica decadente. La bellezza dei miei soggetti consiste nella loro caducità: è il fascino delle crepe, dell’incuria vegetale e architettonica, che riconduce le cose al loro stato primordiale. Gli oggetti desueti e i luoghi da me ritratti rivestono infatti la stessa funzione che ricopre in Proust la madeleine, quella di evocare il ricordo di un’età felice.

I'm Groot
La mia ricerca, che ho chiamato “Fenomenologia della fine” è cominciata circa 6 anni fa. Un lungo viaggio fotografico, quasi ininterrotto, che mi ha portato in tutta Europa. Oltre all’Italia, dove ho elaborato i primi scatti sono stato in Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Bulgaria, Polonia, Ungheria, Lettonia, Lituania e Portogallo. L’intenzione era quella di proporre un ventaglio più ampio possibile di questa geografia invisibile intorno a noi. Adesso sono orientato verso letture più specifiche e personali. Come nella mia ultima mostra, in cui mi sono concentrato esclusivamente sulla natura che si riappropria dei suoi spazi. Nel mio prossimo lavoro verrà sviluppata invece l’idea di un bizzarro dialogo tra luoghi abbandonati e la fantasia letteraria e cinematografica.

Brave new world

Lei parla di “Fenomenologia della fine” e di “geografia invisibile intorno a noi”, può entrare nello specifico e spiegare?
Tutti noi passiamo ogni giorno davanti a qualche rudere, a qualche fabbrica in disuso. Ormai sono invisibili ai nostri occhi, dimenticati. Ma dietro quelle finestre rotte spesso si nascondono veri e propri tesori, testimonianze preziose della stratificazione del tempo. Il fascino esercitato dalle tracce, dalle vestigia e dai detriti alimenta lo sgomento misto ad ammirazione di fronte alla bellezza di queste rovine. Il mio lavoro riguarda la “fine” di tutto quello che questi luoghi hanno rappresentato nel passato ma l’approccio è sempre estetico, mai di denuncia.

Le grand bleu

Finora lei si è dedicato a “Fenomenologia della fine” e adesso parte con il “bizzarro dialogo tra luoghi abbandonati e la fantasia letteraria e cinematografica”?
“Fenomenologia della fine” è un progetto che non prevede una vera e propria conclusione, avrà diverse declinazioni come il dialogo tra decadenza e letteratura/cinema.
Alcuni di questi luoghi, soprattutto i magnifici ambienti dell’archeologia industriale mi trasmettono suggestioni legate alla fantascienza letteraria e cinematografica. Questi mastodonti del lavoro nella mia immaginazione assumono le sembianze di macchinari di altri mondi ed epoche. Un catalogo di stupori distopici.

Personal Jesus

La sue foto emanano la sensazione degli occhi di un bambino di fronte a scoperte fantastiche. E’ una continua trasformazione del paesaggio “abbandonato” in qualcosa di fiabesco.
Una visione che abbraccio molto volentieri. E’ proprio il senso di meraviglia ritrovato che rende così emozionante la mia ricerca. E citando Alice: quando parto per un nuovo viaggio, una nuova avventura, mi chiedo sempre che cosa troverò. Attraverso lo specchio.

Child's play

Dove ha esposto ultimamente e qual è la prossima esposizione ha in programma?
L’ultima mostra l’ho chiamata “Restituzione”, ho esposto a Sesto Fiorentino, all’OfficinaBizzarria.
La prossima si chiamerà “Hic sunt dracones”, sarò ospite al Cascina Farsetti Art, a Roma a giugno.

Madeleine

Crede che la tecnica sia fondamentale per fare buone foto?
Utilizzo una reflex digitale, una Nikon D800. Lavoro in condizioni precarie di luce, quindi l’uso del cavalletto è quasi sempre necessario. Quello che so della fotografia l’ho imparato esclusivamente sul campo, sbagliando e sbagliando ancora. Non sono mai stato maniaco della tecnica ma nemmeno si può improvvisare, il mezzo va conosciuto bene. Soprattutto per fare quasi tutto in fase di scatto e ritagliare meno spazio possibile alla postproduzione.

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