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Addio a Emerson, lo zingaro del rock

Keith Emerson Da sinistra, Keith Emerson, Greg LakeeCarl Palmer. Emersonèmortoa71 anni nella sua casa di Santa Monica
Keith Emerson
Da sinistra, Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer. Emerson è morto a 71 anni nella sua casa di Santa Monica

Suicida a Santa Monica. Il suo super gruppo con Lake e Palmer esaltò il ruolo delle tastiere

07.03.2016, sulle pagine de Il Secolo XIX – Strano destino per un figlio dello Yorkshire, un ragazzino geniale che amava Bach e Prokofiev più del rock. Keith Emerson, il mago del sintetizzatore Moog, il cavaliere solitario di tastiere che andavano a sbattere nel jazz di Dave Brubeck, è morto nella sua villa di Santa Monica, California. C’era un bel sole a Tordmorden, che alla fine della guerra era un paesaggio tiepido e umbratile. C’era sole anche nella West Coast più sofisticata, dove un ex divo di 71 anni può anche scegliere il suicidio. Strano destino e una beffa dietro l’altra.

Pensate che in Italia Emerson, universalmente noto per aver fatto società con il bassista Greg Lake e il batterista Carl Palmer, sarà sempre il pianista che sfrecciava sulle note ripide di “Honky Tonk Train Blues”, sigla finale di “Odeon, tutto quanto fa spettacolo”, dal 76 al 78 su Rai2. Guardavi quel matto in maniche di camicia e gilet e ti chiedevi: ma è lo stesso di “Tarkus” o “Brain Salad Surgery”, album celestiali del trio più bistrattato e sorprendente del rock? Era lui.

Emerson era un tipo indecifrabile, con un senso dell’umorismo molto accentuato.«Sa perché mi sono messo a suonare l’organo Hammond? Perché dopo un po’ trovavo il pianoforte un po’…noioso». Non ci credeva, naturalmente. Ma era fatto così. Gli piaceva pilotare aerei, e non si capiva mai quanto avesse sofferto per il declino piuttosto veloce del trio, che già nel 1979 faceva brillare le mine di tre personalità difficili da tenere insieme.

La stampa britannica, all’inizio, pensava che il simpatico Keith e i suoi Svengali fosse praticamente terroristi del nascente pop. Immaginate cosa avevano dovuto passare gli ascoltatori, sopportando il beat e poi l’evoluzione naturale in rock, e quale disgusto, oltre una certa età, dovesse generare quel miscuglio imperdonabile di classico e contemporaneo. Emerson aveva dato vita a un gruppo chiamato Nice, nelle enciclopedie gli danno molto risalto ma non valevano poi molto, Lake veniva ai King Crimson di Robert Fripp, altra scuola, altre sfide, Fripp è sempre stato a un passo dalla soglia pontificia del rock, quindi non si discuteva nemmeno che la sua musica fosse divina. Palmer, poi, veniva catapultato dagli Atomic Rooster, anche loro progenitori del Prog, che è una melassa così ampia e intorcinata nelle intenzioni dei suoi fondatori da cooptare anche i New Trolls di De Scalzi, Belleno, D’Adamo e Di Palo.

Emerson non aveva le pretese introspettive dei colleghi, per lui esisteva solo «il piacere di scoprire chi siamo, possibilmente passando nelle pagine più belle della musica. Lei pensa che esagerassi?»

Sì, quando uscì “Pictures at an exhibition” da Mussorgsky lo presero per matto. E lui rideva: «Allora così dovrei dire quando Jimi Hendrix mi chiedeva consigli su come far coincidere la sua chitarra con l’orchestra britannica più classica?».

 Tutto vero, il buon Jimi vedeva in quell’elfo che se ne infischiava di rispettare le regole della ribellione rock come un collega senz’altro più bravo e sveglio di lui. Per somma fortuna, il vicino di casa a Santa Monica diventò, a suo tempo, John Lydon, sì il Johnny Rotten dei Sex Pistols. Il bello, in quest’avventura a tratti cupa, lo scioglimento, la rifondazione e la definitiva sepoltura artistica del trio, era che Emerson pensava davvero di aver fatto una rivoluzione riallungando i tempi della musica su disco: «Sono tutte scemenze, quattro o nove minuti non andranno bene oggi, male assicuro che dal vivo ne avremmo suonati anche venticinque, in serie di dodici». Qualche anno fa doveva ripartire tutto da capo, ma proprio Emerson cominciò a delineare uan fragilità dove il corpo tradisce la volontà di fare spettacolo. E finì lì. Aver vissuto in Inghilterra nella villa che era appartenuta al creatore di Peter Pan non gli ha mai portato fortuna. Anzi. Il mood che usciva dalla sua musica, a dirla tutta, era più vicina alla colonna sonora di “Inferno” per Dario Argento che ai tentativi di rielaborare quel prog rock andato avanti per i fatti suoi. Non sempre c’è bisogno di un virtuoso per far vivere leggende. Nemmeno del sole per morire a Santa Monica.

Per gentile concessione de Il Secolo XIX

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