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L’eccezionalità della vita reale. Intervista al fotogiornalista Paolo Marchetti

INTERRUPTED - NICARAGUA JUVENILE PRISONS ENGITA
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ENGITA

«La fotografia è la mia opportunità di diventare l’uomo che vorrei essere, una persona sempre pronta a incantarsi di fronte all’ordinario»

foto_marchettiCome può il giornalismo raccontare la realtà? Lo racconta Paolo Marchetti: fotogiornalista che ha vinto numerosi premi e riconoscimenti internazionali. Nelle sue fotografie pone particolare attenzione agli aspetti politici e antropologici, cercando di cogliere quello che lui definisce: «L’eccezionalità della vita reale». Marchetti sarà uno dei protagonisti della terza edizione del Link Festival: l’evento dedicato al mutamento dell’informazione e della comunicazione. Il fotoreporter interverrà martedì 20 ottobre nel Salone degli affreschi dell’Università di Bari “Aldo Moro”. Ma che cosa tratterà quest’appuntamento? Presto detto: giornalismo e violenza, un confronto fra le esperienze professionali internazionali. «Di fronte alle tue immagini, devi sapere cosa tenere e cosa escludere dalla tua sequenza finale, l’editing è la tua identità ed è lì che decidi chi sei», ha dichiarato Paolo Marchetti.

 

Quali sono le tue sensazioni nei confronti dei soggetti che fotografi? Si tratta anche di etica?
Gli altri mi piacciono, e questo per me è un presupposto imprescindibile grazie al quale affronto la fotografia con un atteggiamento aperto, sempre fertile all’esperienza ma anche vuoto di sovrastrutture culturali e ideologiche. Essere un fotogiornalista è ciò che faccio e questo mi permette di non limitarmi semplicemente a esercitare la mia professione. Quest’attitudine mi chiama, però, a rinunciare un poco a me stesso e allo stesso tempo a rivendicare la mia presenza, fisica e intellettuale, nei contesti che decido di raccontare. L’aspetto etico è profondo ma non lo rintraccio in un codice deontologico (sebbene questo sia necessario), ma in me stesso, nei miei valori. Non credo nella distinzione di un’etica professionale e una umana, credo nella vocazione per certi mestieri ed esercito la mia professione non perché scelgo di indossare la divisa del fotogiornalista ma perché investo me stesso in una disciplina che mi chiede di essere, e non soltanto di fare. Se ami un mestiere che si rivolge agli altri, non puoi soltanto riferirti a un codice superiore che traccia i confini e le modalità della correttezza, credo che tu debba sposare e fare tuoi certi principi. Rispetto, umiltà ed empatia sono certamente i punti ai quali maggiormente mi riferisco e che mi permettono di ricordare che gli altri sono persone e non solo i soggetti delle mie foto.

OUTCASTS STAINS OF KERALA
OUTCASTS STAINS OF KERALA

Da qui penso subito alla fotografia che ritrae Aylan Kurdi, il bambino annegato davanti alla spiaggia di Bodrum in Turchia. Alcuni avrebbero preferito che non fosse pubblicata. Qual è la tua opinione?
Quella fotografia avrei potuto scattarla anch’io, come forse ogni professionista avrebbe fatto, ma una volta tornato a casa devi affrontare delle scelte. Di fronte alle tue immagini, devi sapere cosa tenere e cosa escludere dalla tua sequenza finale, l’editing è la tua identità ed è lì che decidi chi sei. Esprimere un’opinione è davvero complicato perché so bene che scattare una fotografia significa soprattutto aver vissuto un’esperienza e questo è un fattore che soltanto l’autore di quell’immagine può conoscere. Tutto questo ancora una volta riguarda l’aspetto etico, ma non dobbiamo dimenticare che il processo mediatico va oltre le scelte di un fotografo perché c’è un editore che a sua volta decide cosa mostrare e cosa no, c’è inoltre un giornalista che decide cosa scrivere e dunque tutto dipende da una linea editoriale che a sua volta è la somma di molteplici scelte politiche. Un altro fattore fondamentale è la rapidità con la quale ormai si fruisce dell’informazione. L’isteria editoriale corrente non ci permette di masticare e deglutire la storia, bensì ci obbliga a un “uso colluttorio” dell’informazione stessa. Ormai ci sciacquiamo la bocca e sputiamo via, pronti a fare lo stesso con la successiva notizia. L’approfondimento è l’unica alternativa valida ma deve essere frutto della scelta del singolo cittadino.

VANISHING ROOTS THE EXTINCTION OF ETHNIC MINORITIES
VANISHING ROOTS – THE EXTINCTION OF ETHNIC MINORITIES

Perché hai deciso di abbandonare la tua carriera cinematografica per scommettere in una vita da reporter?
La mia carriera cinematografica nel reparto “Operatori”, sebbene fosse un percorso che scelsi spontaneamente, non riusciva più a contenere l’urgenza che avevo di interessarmi alla realtà e agli altri. Questa mia scelta non ha mai riguardato soltanto il desiderio di produrre immagini, d’altronde scattare fotografie per me ha sempre rappresentato solo l’ultimo anello di una complessa catena intellettuale che mi affascina. Dopo tredici anni investiti nel cinema, ho intuito che la fotografia potesse essere una straordinaria conseguenza dell’esperienza che intendevo fare, come uomo e come cittadino del mondo. Sono affascinato dall’eccezionalità della vita reale e quando realizzo i miei progetti, cerco di aggiungere una domanda al dibattito al quale intendo rivolgermi senza alcuna presunzione di fornire delle risposte, non ne sarei neppure capace. Innescare una reazione negli altri è il traguardo che m’interessa davvero, ma come il solito riuscirci in maniera intelligente è una sfida davvero complicata. La fotografia è la mia opportunità di diventare l’uomo che vorrei essere, una persona sempre pronta a incantarsi di fronte all’ordinario.

 THE NOBLE FIRE OF ANCIENT SLAVES - Haitian Emergency
THE NOBLE FIRE OF ANCIENT SLAVES – Haitian Emergency

Robert Capa ha detto: «Se le tue foto non sono abbastanza belle, vuol dire che non ti sei avvicinato abbastanza». Raccontaci l’esperienza che più ti ha coinvolto nel tuo lavoro.
Per raccontare bisogna conoscere e in fotografia è necessario anche esserci, bisogna poter sentire gli odori delle storie che intendiamo ritrarre e poter toccare con mano ciò che si osserva. È qui che diventa determinante la distanza fisica tra noi e ciò che fotografiamo e che immediatamente si traduce in una distanza emotiva all’interno dell’immagine realizzata. Credo sia questa l’eredità contenuta nella frase di Capa. Riconoscere questo spazio è importante ma questo può anche significare che a volte tenere bassa la macchina fotografica, decidendo così di non scattare certe immagini sia la scelta più opportuna ma è qualcosa di cui puoi accorgerti soltanto essendo dentro le situazioni. Negli anni però ho imparato che questo non basta, bisogna anche contaminare e nutrire la fotografia con la propria cultura e questo è imprescindibile per non ridurre questa disciplina alla sola rappresentazione della vita all’interno di un fotogramma. Mi occupo perlopiù di progetti a lungo termine e ognuno di questi ha messo alla prova la mia tenuta emotiva esponendomi così a esperienze complicate. Probabilmente il mio progetto sul risveglio del fascismo realizzato in cinque paesi europei per cinque anni, mi ha spinto a fare i conti con aspetti personali che non avevo neppure preso in considerazione prima di allora. FEVER – The Awakening of European Fascism è un’indagine fondamentalmente costruita sulla paura dei soggetti che ho ritratto ed espormi alla loro rabbia, scaturita dagli eventi politici e le loro ripercussioni sulla società, ha onestamente rappresentato una prova davvero intensa e stremante.

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www.paolomarchetti.org

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