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Beati i tempi che furono. Quando l’arte era un atto di amore

Caravaggio testa part
Beati i tempi che furono.

Quando un artista poteva essere un gran figlio di puttana.

O uno stronzo, o un assassino, o un frocio disgraziato.

Quando incazzato o frustrato che fosse si ubriacava o si lacerava un padiglione auricolare.

Quando faceva a botte o quando cercava sesso con donne e prostitute solo per quell’esigenza violenta di imporsi sulla vita.

Quando non glie ne fotteva niente: c’era solo il suo lavoro a dettare le regole.

Quando nemmeno un Papa poteva farlo stare dove non voleva, e se ci stava lo faceva per denaro da poi spendere in altre puttane, vino o scommesse.

Quando poteva vivere in case da ricco o in magazzini puzzolenti che tanto era lo stesso.O strozzinare la gente per poi dipingere l’affresco che cambió la storia.

Quando la vita era breve e si doveva spendere in un soffio ed in quel soffio lasciare un segno per l’eternitá.

Quando le commissioni erano un modo per guardare il mondo e criticarlo, sezionarlo, maciullarlo o esaltarlo ed incoronarlo.

Quando la morte valeva come la vita e la vita valeva sempre solo e grazie alla morte.

Quando di nascosto si intrufolava a sezionare e studiare i cadaveri fottendosene di Madre Chiesa o di chi che sia.

Quando non c’erano regole da seguire per essere nella top list o in uno stupido ranking.
Quando non esisteva il magico mondo di internet dal quale doversi proteggere, quando non c’erano quelle quattrocento aste pronte a distruggerti. O collezionisti alla ricerca dell’affarone. Quando non c’erano quotazioni di mercato impazzite che salgono e scendono assecondando solo i vizi del momento.

Quando l’artista non era ammaestrato come una scimmietta che aspetta l’arachide e ben educato come uno scolaretto al primo giorno di scuola.

Quando non era un parvenu che cerca di entrare nella vita intellettuale, quando non aveva bisogno di essere riconosciuto dal mondo che conta, quando non smaniava di entrare in un salotto romano o in una chiacchiera milanese a parlare per ascoltare unicamente l’eco stordito di parole prive di contenuto.

Quando ancora pensava che la sua forza e grandezza potesse risiedere nel suo lavoro, e che quel pennello, quello scalpello, quel “lapis”, quella penna fossero armi, spade, per conquistare il mondo, per ridisegnarlo, per cambiarlo.

E non esistevano tutti quei chilometri di pagine scritte al vento atte solo a giustificare un lavoro vuoto di tutto.

Quando non doveva presentare la dichiarazione dei redditi seduto alla scrivania con gli occhialetti appoggiati sulla punta del naso, quando non doveva star attento se emettere una fattura nel primo o secondo semestre ed andare a perseguitare i fornitori per averle a sua volta, quando non doveva preoccuparsi del fisco, degli errori del commercialista, della banca e degli interessi che genera o sottrae.

Quando per lavorare esistevano filantropi che donavano i propri soldi affinché la grandezza, la bellezza e la verità potessero ancora esistere.

Quando il miracolo dell’arte era qualcosa di concreto, tangibile. Fatto di sangue, ossa, carne, sesso, speranza, amore, odio, guerra, pace ed ancora amore.

Perché l’arte era un atto di amore, un qualcosa da dare al mondo. Un qualcosa capace di trascendere il deserto dell’animo umano, i suoi vizi, le sue grettezze, il suo schifo.

Quando l’arte era vera perché non doveva mettersi il cerone, far la interessante, essere la “figa” muta da mostrare agli amici.

Quando l’artista non era una puttana venduta alle mode.

Quando un artista non si sarebbe mai fatto regalare dei lavori dai colleghi per poi metterli in asta strisciando nei vuoti della legge. Svenduti per quattro soldi, tutto solo al fine di mantenere la sua bella (triste) vita. Ci avrebbe dipinto sopra.

Ma noi siamo in un mondo di gente perbene (buoni o vigliacchi?), siamo in un mondo di leggi che proteggono il vile e castigano il giusto. Siamo un mondo che lascia alle serpi lo spazio per avvelenare. Abbiamo accettato un mondo che ci fa essere schiavi, pedine idiote di un sistema robotico e senz’anima.

Esseri la quale libertà si può esercitare solo nello spazio ridotto delle quattro mura domestiche ma facendo molta attenzione a non disturbare i vicini.

Abbiamo accettato la schiavitú del denaro come fatto normale. Cosí ci vestiamo di Aspesi, Moncler e Church, ci profumiamo con Hermes e viviamo in appartamenti storici o loft minimal con le porte laccate color avorio o sgualcite vintage.

E facciamo opere politically correct. Facciamo paraventi, disegni senza nulla ma incorniciati con legni di ciliegio o frassino. E poi quadri enormi come fossero carte da parati francesi, sfondi ideali per farci fotografare con i nostri amici del grande circo alle inaugurazioni per poi postare quei nuovi surrogati d’esistenza ovunque.

E poi dipingiamo sedie, tavoli ed auto. Ed ancora collages perché bisogna farli, e ci mettiamo un po’ di pizzo, o forse una fotocopia di una foto in b/n rubata da qualche rivista. O piccolissimi quadretti pieni pieni. E poi oggetti buttati lí nel centro di una sala per ammirarne il decadimento o l’ammasso decostruito. E perché no, fotografie, perché siam tutti fotografi, e con photoshop si sistema tutto.
E e via dicendo.

Una cara amica mi dice che i cortigiani leccaculo ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ma io penso che i cortigiani leccaculo prima sapevano bene il ruolo che stavano giocando, oggi invece pensano che sia giusto così.

Ed io vorrei spaccare tutto, per tornare a vedere qualcosa di vero.
O per lasciar solo quel che di vero resta…

 

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