Print Friendly and PDF

La Venezia della Biennale tra profumi della finanza e “cadute” di potere

biennale venezia 2015
All the World’s Futures / Kerry James Marshall © ArtsLife

 

biennale venezia 2015
All the World’s Futures / Bruce Nauman © ArtsLife

Riesco a emergere dai giorni delle ubriacature delle vernici biennaliere per iniziare finalmente a rendere conto dell’edizione di quest’anno, come ancora una volta mi chiede il nostro buon Direttore. La fatica è sempre più improba perché la gioventù non avanza, anzi, e la precisa quanto sgradevole sensazione di aver già visto tutto o quasi non mi abbandona.

Ma se la festa quest’anno è doppia (il gemellaggio figurato o reale con l’Expo di Milano è negli scambi di tutti i presenti e l’Italia – tutto sommato – male non ne esce), anche il giudizio su entrambe le manifestazioni si fa sempre più contiguo mentre si ricerca vanamente un cablaggio purchessia del discernimento critico: “It’s all an art fair” mi sussurra sorniona l’amica gallerista americana di stanza da molti anni a Pechino, sapendo bene di non essere originale e probabilmente intendendo che a Est come a Ovest della piana padana (e dell’orbe terraqueo, se proprio dobbiamo dirlo) l’unica cosa che riesce davvero intelligibile è il vorticoso e rapinoso movimento del dollaro.

Non sono anima candida e la Biennale non è mai stata il puro teatro dell’Arte visiva che nello statuto dei primordi e nella mente del benemerito Antonio Fradelletto, primo segretario generale nell’edizione inaugurale del 1895, doveva elevare a ufficialità gli incontri sino ad allora poco formali degli artisti al Caffè Florian. Da subito le mediazioni e i tentativi di pilotare i giudizi delle giurie divennero pane quotidiano. Ma almeno il gioco non era così spudoratamente “finanziario” e forse Venezia era ancora la scena privilegiata per discutere d’arte sul serio.

biennale 2015
Padiglione delle Esposizioni – Fabio Mauri, alcune opere della serie “Fine, materiali, tecniche, dimensioni e date diverse, courtesy the estate of Fabio Mauri con il supporto di Hauser & Wirth
biennale venezia 2015
All the World’s Futures / Fabio Mauri. Foto Luca Zuccala © ArtsLife

Questo bel mondo è morto da tempo, si sa. Ma quest’anno, laddove il tentativo del main curator di ricostruire un percorso visivo e tematico della mostra principale riparte dalle teorie marxiste peraltro un poco fumosamente espresse (e pure sviluppando il percorso espositivo con buona coerenza e – soprattutto ai Giardini – anche con buone opere, il che è questione dirimente, alla fine), e mentre tutti noi della vecchia guardia speriamo di inciampare ancora in un poco di sano strutturalismo che ci accompagni nella visita della più bella mostra d’arte contemporanea del pianeta, il profumo della finanza e del gioco di potere (da dimostrare, da sottolineare, da ribadire perché si è emergenti e si ha voglia di contare sulla scena internazionale, perché si è certi di essere dei “campioni” e si vuole continuare a esserlo, perché la decadenza è purtuttavia il simbolo di un antico splendore…) si spande molle e infingardo per le dolci chiome arboree dei Giardini e le assolate rive delle Gaggiandre, si insinua fra le fila di astanti in coda per visitare i padiglioni più gettonati (ed anche i più deludenti) dell’Occidente, permea di sé ogni discorso, ogni sussurro, ogni risatina un poco nervosa mentre si sta torturando quell’inutile orpello digitale che si è portati seco come campanaccio di mucche cibernetiche per dimostrare di essere sempre e dovunque pronti alla reazione, crociati del nulla.

Il multitasking che ci dicono essere la prima parola d’ordine del secondo decennio del terzo millennio si esprime attraverso il penoso affanno di essere plurioperativi, multidisciplinari, interconnessi, mentre – con lo stesso ritmo incalzante ma con modalità assai meno raffinate e suadenti – la novità vera è che questa edizione non è più per l’Occidente, l’Europa e il Nord America in eterna autoreferenza dediti solo a considerare le proprie fatiche. E’ finalmente questione che non dipende più da noi “bianchi”.

I volti colorati sono, credo per la prima volta in Biennale, in grandissimo numero, i bianchi (e i più bianchi di tutti, gli anglosassoni) sembrano davvero alcuni fra tanti: un segno dei tempi che parla assai più di qualsiasi tentativo di inquadrare l’avvenimento attraverso pregnanti analisi sociologiche. La presenza del mondo esterno alla vecchia Europa è dirompente e non pare più solo questione di intellighènzia casualmente sciorinata in laguna, quanto piuttosto di una conquista saldamente mantenuta con il concorso di legioni di assalto ben armate e assai consapevoli del proprio compito.

biennale venezia 2015
All the World’s Futures / Tetsuya Ishida © ArtsLife

Piace tantissimo, questa Biennale (e sarà senz’altro anche per la direzione di Okwui Enwezor, non ancora il curatore che avrei scelto dopo la sublime ultima prova di Massimiliano Gioni, ma comunque un buon antipasto di ciò che sarà in futuro) ai non Occidentali, perché riporta il focus intorno alla sociologia dell’arte e all’arte funzionale allo sviluppo sociale e all’identità nazionale dei popoli. Che lo si voglia o no, che lo si detesti o meno, questo è il sentimento del tempo che aleggia presso rive diverse dalle nostre. Dobbiamo imparare a fare i conti con questo assunto che sarà sempre più il parametro cui dovremo non tanto adeguare il nostro punto di vista quanto l’assetto e la composizione delle nostre forze in campo. La mediazione sarà per l’Occidente e la sua cultura l’unica arma vincente.

Gli ospiti cinesi gradiscono immensamente questa prova muscolare di far proprio un teorema di origine occidentale e ora pienamente assimilato ai continenti “non bianchi”. Sono entusiasti del fatto che finalmente la Biennale ospiti un punto di vista non più solo eurocentrico e tenti di articolarlo senza balbettamenti troppo evidenti. Cina e Corea irrompono sulla scena veneziana con un dispiegamento da guerra dei mondi: ingenti capitali spesso indifferenti all’oggetto del proprio investimento sostengono le importanti presenze di uno Xu Bing (maldestramente coadiuvato sul posto da un inadeguato Achille Bonito Oliva) presentato al Danieli alla presenza dello scintillante e felice Hou Hanru ed efficiente e perfettamente calibrato Umberto Vattani; lo straordinario gruppo artistico coreano Dansaekhwa (fra cui il richiestissimo e già vendutissimo, quanto talentuoso, Ha Chong Hyun, il nome oggi sulla bocca di tutti) spariglia le carte del bel mondo dei flaneurs da kermesse con una rutilante vernice et sontuosa festa in linea a Palazzo Contarini Polignac, promosso dalla fastosa Tina Kim con altri potentissimi di Seul.

E il prodotto non è più (o, almeno, non soltanto) merce per palati buoni e portafogli gonfi.

Mentre i nuovi giochi si stanno delineando con chiarezza e l’asse terrestre prende un nuovo giro con la benedizione dell’Arte, noi restiamo prigionieri delle nostre piccolezze che ci avvitano in una lotta di galli dagli artigli spuntati.

Giù dal pontile.. della Fondazione Prada.. tutti in Canal Grande
Giù dal pontile.. della Fondazione Prada.. tutti in Canal Grande..

Il pontile di Ca’ Corner della Regina, magione di Prada, frana sotto il peso dei troppi imbucati (perlopiù italiani) che premono per irrompere nella festa dei potenti. I corpacci inguainati in inopportuni vestiti della festa si arrazzano per evitare la poltiglia delle basse acque melmose e maleodoranti in riva al Canal Grande, in questi giorni più lercio che mai. Le inutili quanto artificiali polemiche intorno al passo furbetto del Padiglione d’Islanda con l’artista neofurbetto Christoph Büchel il quale, come sua proposta artistica, “installa” polemicamente (?) una moschea all’interno della chiesa sconsacrata della Misericordia (proprio dove quattro anni fa si svolse una parte dei magnifici festeggiamenti in onore del matrimonio della figlia del magnate indiano del ferro, Pramod Agarwal) danno il destro a giornalisti di provincia e pensatori dell’ultima ora per fare il punto sul politically correct e il socially incorrect, precipitando la conversazione in un tinello di inutili lazzi che non hanno nulla a che fare con la questione dell’arte. Che qui, più che altrove, latita. Il padiglione d’Italia si snerva nel tentativo di accontentare l’Accademia ma riesce solo ad appesantire quello che poteva essere un buon progetto, perdendo così l’ennesima occasione di far bene con nomi che potevano certamente costruire qualcosa di buono. Il supremo CyTwombly si scolora a Ca’ Pesaro in un allestimento da telemarket che davvero poteva rimanere nei cassetti di Gagosian.

Noi siamo ancora al palo (chi aggrappato a quello del pontile crollato sotto il peso della propria insipienza, chi a quello delle proprie granitiche certezze in fatto di culto soprattutto e – ma proprio in seconda battuta – di arte) e sembra siamo ormai al margine della conversazione fascinosa della Storia. Forse bisogna diventare leggeri e crudeli, indifferenti e insensibili; forse si deve iniziare nuovamente a osare, procurando però diverse prerogative per dialogare con il resto del mondo secondo parametri che possano diventare comuni.

Mi si dirà: sin troppo facile disanima, la tua.

Certamente, sono una trita Cassandra; ma il compito delle Cassandre è quello di battere il chiodo fino a che è caldo. E anche quando inizi a raffreddarsi. O almeno sino a quando un Agamennone, magari di colore diverso dal volto esangue dei consanguinei, le conduca bruscamente verso il proprio destino di gloria imperitura benché infelice.

biennale venezia 2015
All the World’s Future / Hans Haacke © ArtsLife

Commenta con Facebook

leave a reply

*