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Verso il 3.0. Dov’è finita l’informazione?

C’era una volta il giornalismo “bidimensionale”. Le testate pubblicavano notizie (a mezzo stampa, via etere, attraverso il mezzo televisivo), i lettori le leggevano, le ascoltavano in radio o sul piccolo schermo.

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C’era il giornalismo buono e quello meno buono, c’erano le notizie approfondite bene e meno bene, c’erano le bufale e i ballon d’essai, c’era la stampa indipendente e coraggiosa che faceva “da cane di guardia al diritto di cronaca” e l’informazione prona, quella manipolata e distorta dalla politica o dal potentato di turno.

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Pippo Fava, giornalista, scrittore, saggista, direttore de “I siciliani” ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984

Era un buon sistema? Forse sì, o forse no. Ma non è questo il punto. Il punto è che questo sistema d’informazione “a due dimensioni” era tutto sommato riconoscibile, immediato e intellegibile a qualunque tipo di lettore-radioascoltatore-telespettatore al quale, dopo essersi informato, spettava, in ultima analisi, giudicare se quella testata era più o meno autorevole, competente e imparziale oppure no.

Un giudizio che poi si traduceva in un atto pratico: l’acquisto della copia del giornale cartaceo, la sintonizzazione su quella radio o su quel canale tv. Stop.

In sintesi, le testate d’informazione sono nate per soddisfare un bisogno dell’individuo: quello di essere informato su ciò che succede, appunto.

E perché questo sistema potesse reggere, alla base vi era un prerequisito imprescindibile: cioè che il fruitore di notizie riconoscesse al professionista dell’informazione una certa autorevolezza e una certa competenza. Sull’obiettività, bisognerebbe aprire un capitolo a parte e non ne abbiamo né il tempo né la voglia. Anche perché, del resto, come ci ha insegnato l’abbecedario del giornalismo, ogni punto di vista nel raccontare un fatto, alla fine, risulta sempre parziale.

Senza andare a scomodare Habermas e i suoi studi sul concetto di opinione pubblica, in quel “giornalismo 2D” i media avevano il delicato compito di “fare opinione” e provare – attraverso argomentazioni costruite, mediate dalla propria professionalità e magari, per chi ce l’aveva, dalla propria onestà intellettuale – a convincere il pubblico della bontà, della veridicità dei loro punti di vista.

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Afio Catania, serie informazione disinformata-pericolo di stampa, 2008

Ovviamente qui, le anime belle esclameranno: “Ma sono stati gli stessi giornalisti a tradire questo sistema, a mettersi sotto le scarpe la propria professionalità e onestà intellettuale, in nome di interessi particolari!”.

Vero, verissimo. Ma – per la miseria! – il lettore-radioascoltatore-telespettatore (almeno quelli con una minima capacità di discernimento del bene e del male, ché sugli altri mi rifiuto anche di soffermarmi) alla lunga, era in grado di riconoscere la professionalità, l’imparzialità, l’autorevolezza! E quindi di scegliere di non comprare più quel quotidiano, di non ascoltare più quella radio, di non guardare più quel telegiornale!

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La bellezza di quel giornalismo a due dimensioni, in fondo, era proprio questa: la sua semplicità, la sua immediatezza.

Poi è arrivato il web, anzi il web 2.0, quello dei social network e della condivisione a tutti i costi.

E quel sistema – buono o meno buono che fosse – è stato minato alle fondamenta, è franato, è stato stravolto, rivoltato come un calzino. Da fisso a due dimensioni che era, il giornalismo si è spacchettato in decine di dimensioni parallele e speculari, a volte accartocciate su se stesse e prive di ogni logica e ogni razionalità.

Il semplice gioco delle parti informatore-fruitore di notizie si è capovolto, s’è fatto condizionare dalla reciprocità e dall’interazione diretta tra chi dà informazioni e chi le “consuma”. E la stampa ha perso di vista il suo obiettivo di fondo: cioè quello di “informare”.

L’informazione 2.0, i new media o chiamatelicomevipare, si sono “politicizzati” nel senso più deteriore del termine.

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Invece che dare notizie, cercano il facile consenso, facendosi – adesso – condizionare dai gusti del consumer, dalle sue logiche, dalle sue mode, invece che provare ad “educarlo”, a “informarlo”, a fornirgli nuove categorie concettuali medianti le quali metterlo in condizione di formarsi una propria opinione sui fatti.
Negli ultimi tre anni il dilatarsi all’infinito dell’utilizzo della Rete e soprattutto dei suoi strumenti “social”, ha ingigantito in maniera esponenziale questo processo di trasformazione non solo giornalistica ma antropologica a tutti gli effetti.

La mutazione è in essere: pensateci bene. Le notizie, oggi, si commentano ancora prima di finire di leggerle, la corsa morbosa alla condivisione di tutto (opinioni, fatti pubblici e privati) smantella ogni filtro di analisi e di riflessione, si ragiona per hashtag e non per concetti, ottenere “like” è diventato un obiettivo ancora più importante che dare le informazioni, la parola (il logos) ha smarrito il suo significato originario e si è perso il senso stesso delle cose, dei fatti, della vita.

La sua realtà più profonda. Basta leggere i forum, o lo spazio dei commenti alle notizie dei portali di informazione. Si parte dal commentare la notizia del sequestro delle due volontarie in Siria e si finisce per accapigliarsi sui costumi sessuali delle ragazze di oggi.
Si comincia a scrivere opinioni sulla notizia dell’ictus a Bersani e ci si perde a sbraitare contro la malasanità che ha rovinato mio cugino.

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Cecily Brown
Untitled, 2005
Oil on Linen
77 × 55 in
195.6 × 139.7 cm
© Cecily Brown. Courtesy Gagosian Gallery.

Come se fosse tutto un interminabile, folle, surreale flusso di coscienza. Nel quale vince – non l’autorevolezza, non la competenza, non l’imparzialità tanto agognate – ma solo chi sa toccare la pancia della gente. E la pancia della gente – si sa – da che mondo è mondo, genera mostri.

 

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