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Intervista a Croce Taravella

e15094E’ incredibile quanto l’arte pittorica odierna deve alla modernità, ai suoi innovativi mezzi di condivisione mediatica, in cui l’immagine ha finito per conquistare il diritto di primogenitura all’interno della famiglia dei sensi. E se a questo “debito” si aggiunge anche un nuovo senso – convulso – della temporalità e una nuova spazialità, che contempla sempre più prodigi urbani, grattacieli di vetro e d’acciaio che frantumano la luce e la restituiscono in un infinito gioco di specchi, ecco che non c’è da stupirsi se dinnanzi all’opera di certi artisti ci si ritrova a fare esperienza di mondi caleidoscopici, cangianti nella loro multidirezionalità visiva.

Indubbiamente tutto ciò, unitamente ad altri prodotti “nobili” dell’era contemporanea ha trasmesso i suoi germi alla pittura, rivivificandola. Queste riflessioni  sorgono con forza allorchè ci accostiamo ai dipinti di Croce Taravella, siciliano, classe 1964. Vive ed opera a Roma, ma la sua arte ha un respiro cosmopolita, muovendosi tra le capitali di tutto il mondo, dalle cui suggestioni egli trae materiale per la sua riflessione sulla contemporaneità.

                                 

Abbiamo notato nella più recente produzione che vi sono delle immagini in trasparenza, delle superfici pittoriche diafane che si sovrappongono alle caratteristiche vedute urbane. Che valore ha per lei questo espediente pittorico? Si è forse ispirato alla tecnica cinematografica della sovraimpressione?
La domanda è abbastanza azzeccata. In effetti mi ha molto influenzato il cinema. Ultimamente ho visto molto Orson Welles, Tarkovskij, Sokurov: tutti registi contemporanei, ma anche dell’immediato passato, che si prestavano abbastanza bene al contesto pittorico, e particolarmente si addicevano al mio discorso. Il discorso del fermo immagine è proprio mutato dal procedere del cineasta, che guarda, fissa l’obiettivo su una veduta e al cui interno possono confluire varie immagini, varie storie. Talvolta è come un sogno, dove io fisso esperienze o distillo miei ricordi. Quindi sì, questo espediente pittorico delle sovrapposizioni di immagini è qualcosa che deriva da lì, dal mondo del cinema.

New York 2 2014 tenica mista su lastra 110x150
New York 2 2014 tenica mista su lastra 110×150

Quali sono stati i pittori che più l’hanno influenzata?
Posso citare tanti pittori di cui ho subito l’influenza:  Caravaggio, Michelangelo, Bacon, Malevich; per certi aspetti Manzoni, Pascali.

Si può dire che vi sia anche traccia di Ensor, per esempio, nell’organizzazione interna del quadro, nell’uso dei colori, in questa processione di volti-maschera che in diversi casi si intravede nei suoi dipinti?
Certo. Ensor ha un posto privilegiato nella serie dei pittori che più mi hanno influenzato. Egli, del resto, fa parte di quel trio post-impressionista e pre-espressionista costituito da Munch-Ensor-van  Gogh che da anni mi influenza. Van Gogh è molto presente nel mio segno, Munch, per esempio, nell’idea delle prospettive falsate e nei volti allucinati.”

Dagli anni ’60 in poi, a parte alcuni casi di valore assoluto come le opere dello scultore Anish Kapoor, del videoartista Bill Viola, del performer Hermann Nitsch, non sono mancate nell’ambito della neoavanguardia delle vistose degenerazioni, nel senso di un vuoto formalismo, di un dubbio gusto estetico, di una tendenza dell’arte ad avvitarsi nella sua stessa autoreferenza.  Qual è la sua posizione  in merito?
Per certi versi sono d’accordo con la sua lettura. Gli anni ’60, ’70, ’80 sono stati attraversati, da esperienze come l’arte povera, con Kounellis, Penone, Pistoletto; dal gruppo concettuale milanese con Manzoni in primo luogo; poi dalla scuola romana con Pascali; infine dalla Transavanguardia negli anni ’80. Dopo questi tre tracciati, questi tre gruppi guida dell’arte italiana, che avevano innovato e scandalizzato a sufficienza (si pensi solo a Manzoni con la sua “Merda d’Artista”), oggi, secondo me, ci si è arroccati in una ricerca forsennata di cose già date e viste. Per fare qualche esempio, penso a Maurizio Cattelan: ha fatto delle operazioni interessanti, ma ha fatto anche cose di dubbio gusto. Un altro artista oggi molto quotato, Damien Hirst, alla fine non è che un manierista di sé stesso. In generale non c’è nuovo. Ma la manchevolezza più grande è che oggi nessuno sa più lavorare. Non c’è più il collegamento testa-mano, o meglio, testa-cuore-mano. Ci si muove solo con la testa, con le cognizioni storiche, con la trovata della mattina. Ovviamente sono nemico di questo sistema dell’arte e di ciò che lo favorisce.

Via del Babuino (Roma), 2014, olio su tela, 150x100
Via del Babuino (Roma), 2014, olio su tela, 150×100

La metropoli è la quintessenza della modernità e la modernità è l’epoca in cui il mutamento si fa norma. La natura fortuita, volatile e transitoria di quest’epoca era già stata ben colta da Baudelaire che ebbe a descriverla: “l’altra faccia dell’eterno e dell’immutabile”. Secondo lei dunque, può l’arte, che ha a che fare con una dimensione stabile ed eterna, comprendere e venire a patti con il fenomeno modernità, che è divenire perpetuo?
Certamente. E’ quello che la mia arte cerca di fare. Siamo investiti dalla modernità, per questo io mi soffermo su grandi prospettive di città come quella di New York. La mia scelta è quella di carpire tutte quelle cose che succedono in una stessa scena, cioè gli edifici, le auto, le persone che camminano, introducendovi anche aspetti soggettivi come memorie, sogni. La mia arte vuole essere espressione della grande globalizzazione nella quale ci troviamo, piena di messaggi che vanno registrati e dove in uno stesso momento può cambiare tutto. Per questo il quadro deve adattarsi a questo movimento continuo, e può fare ciò solo facendo in modo che le diverse immagini, che di norma sono concepite separatamente, si intreccino in una visione simultanea e organica.

NewYork - Tecnica Mista su Lastra Intelata cm 110X150
NewYork – Tecnica Mista su Lastra Intelata cm 110X150

 www.crocetaravella.com

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