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Claudia Rossini aka Yamada Hanako

Studio Visit
Bevilacqua La Masa Edition: Palazzo Carminati

Salire gli scalini di Palazzo Carminati è un’impresa. Una volta arrivati alla vetta si viene, però, completamente ripagati della fatica. La Fondazione Bevilacqua La Masa ospita qui sette degli artisti selezionati per lo storico programma di residenze a Venezia.

Claudia Rossini aka Yamada Hanako
Lo studio di Claudia Rossini (Ponte Dell’Olio, 1986; vive a Venezia) è un boudoir, dominato da un letto dalle lenzuola scarlatte, anche se a Palazzo Carminati non si può pernottare. Tra tute zentai e ombrelli parasole di carta e bambù, mi trovo di fronte Yamada Hanako.

«Lavoro quasi esclusivamente con uno pseudonimo, Yamada Hanako, il nome femminile più comune in Giappone. Ho cominciato a utilizzarlo come nickname per i social network, successivamente l’ho adottato come nome d’arte, che unisce lo stereotipo e l’esotismo».

Da dove nasce la necessità di creare un’identità fittizia?
«Avevo bisogno di sentirmi libera dal condizionamento della ricerca che stavo conducendo all’epoca, legata al territorio veneziano, per discostarmene ed esplorare un altro tema, l’immaginario fotografico presente su internet, di produzione amatoriale. Per la maggior parte è legato alla pornografia e all’erotismo e mi sembrava lontano dallo studio dell’immagine di Venezia, dello stereotipo di una realtà che deve fare continuamente i conti con l’idealizzazione dei turisti, cui si deve adeguare».

Anche se in questo senso non c’è molta differenza rispetto all’immagine stereotipata della pornografia.
«Esatto, anch’essa vive dello stereotipo e della contraddizione tra l’istintività del desiderio e la regola, la messa in scena. Nel momento in cui la pornografia è amatoriale diventa interessante, perché è come se ci fosse uno spiraglio in questo canone, in questa regolamentazione dell’immagine. Ho cominciato a cercare e raccogliere questa evasione dalla grammatica visiva attraverso un blog. Si tratta di autorappresentazioni, autoritratti, senza regia esterna. Il soggetto narra se stesso, lo carica su internet e lo mostra a un pubblico potenzialmente infinito. Questo progetto si è poi trasformato in una serie di lightbox in cui ho fotografato lo schermo del computer e ho inserito come didascalia alcune frasi estratte da una chat che ho avuto con un amante conosciuto su internet. Ho scelto un passaggio significativo, in cui lui mi invia un’immagine di un’altra sua amante in una sessione di bondage, che consideravo come metafora del rapporto tra artista e pubblico, in cui c’è una relazione di ricerca reciproca di piacere, ma nello stesso tempo esiste un rapporto di dominio e sottomissione. Non è solo una relazione di amore classica, ma anche di potere. Ho usato la stessa chat per un’altra opera. Avendo promesso di non condividere con nessuno la fotografia, l’ho trasformata in una traccia audio, che poi è stata mostrata come spettrogramma. I file digitali permettono di rendersi conto che le trasformazioni dei codici sono infinite, le informazioni non sono mai false, devi solo essere in grado di leggerle. Nel momento in cui imponi dei confini, dunque, non dai una definizione assoluta, come non può effettivamente essere in un’epoca fluida come la nostra».

La prima fase della tua ricerca era, invece, legata a Venezia.
«Ho iniziato a lavorare con internet nel 2008, studiando temi veneziani per “Crociera a Venezia”. Abitavo sul canale della Giudecca, dove quotidianamente passavano tre enormi città galleggianti, completamente fuori scala rispetto alla laguna. Ero curiosa di conoscere cosa contenessero e l’ho scoperto navigando su internet, appropriandomi di cento fotografie scattate sul ponte delle imbarcazioni, il punto di contatto tra l’interno della nave e la realtà esterna, e aggiungendovi come didascalia le rotte».

I due profili di Yamada Hanako e Claudia Rossini erano, dunque, nettamente distinti. Adesso, invece, i confini si stanno assottigliando e le identità confondendo, per usare un tema a te caro.
«Sto unendo lo studio del corpo, della sessualità e l’immagine di Venezia per la mia prossima mostra, “La gondoliera”, che sarà ospitata da Jarach Gallery. L’estate scorsa, casualmente, ho risposto a un indovinello su facebook, in cui si chiedeva di identificare un luogo della laguna. Ho vinto un giro in gondola, che mi ha permesso di conoscere l’unica donna gondoliere di Venezia. Si chiama Alex Hai, è di origine tedesco-algerina, ma ha vissuto a San Francisco, dove ha lavorato come regista. Lei rappresenta la tradizione, perché il gondoliere è figura iconica di Venezia, ma rovescia lo stereotipo, perché è un mestiere da sempre riservato a uomini veneziani. Non a una donna straniera. Proprio per questo è stata ostracizzata: le hanno tagliato il telo che copre la gondola, rovesciato acqua calda addosso mentre passava. Paradossalmente si potrebbe dire che l’unico vero gondoliere rimasto è lei, che lavora per una famiglia privata e indossa una divisa centenaria. La maglietta a strisce, infatti, è una costruzione, derivata da “Venezia, la luna e tu”, un film della fine degli anni Cinquanta in cui Alberto Sordi indossava questa maglia.

Il mio contributo, anche se si tratta di una mostra a quattro mani, è una serie di fotografie in cui si cerca di uscire dal preconcetto, pur nutrendosi contemporaneamente dell’immaginario cinematografico e pittorico, per ricondursi alla sua biografia di regista e al suo personaggio, quasi uscito da un film. Abbiamo voluto giocare sull’autorappresentazione, legandoci nuovamente al discorso dell’immaginario su internet, anche se Alex ha molta consapevolezza.

Solitamente preferisco fotografare il paesaggio piuttosto che le persone: quando ritrai le persone ti assumi una responsabilità enorme, perché rischi di attribuire un messaggio che non riconoscono come proprio».

Torniamo a internet e all’uso delle fotografie.
«Esatto. L’etica risiede nel chiedersi se chi condivide la propria immagine sia consapevole che il pubblico oltre a guardarla potrebbe utilizzarla per altri fini. Per questo pur appropriandomi delle foto cerco di pormi degli scrupoli, immedesimandomi nella persona ritratta».

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