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Tra pelle e pellicola

“Francesca aveva una grande luminosità e forse, proprio per questo, siamo rimasti tutti abbagliati dal suo modo di essere..”

Sabina Mirri

 

Il 19 Gennaio saranno trascorsi ben 32 anni dalla morte di Francesca Woodman. Avete capito bene, 32. Artslife ha deciso di commemorare la fotografa statunitense in occasione dell’uscita -l’anno scorso- di un libro molto particolare che arrivò qui in redazione, edito da Contrasto, scritto dalla critica d’arte Isabella Pedicini. Il titolo? “Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola”. Il testo in questione non è una classica biografia. Ci sono testimonianze di Giuseppe Gallo, Giuseppe Casetti, della Mirri stessa -la frase apportata sopra è tratta proprio da un’intervista a Sabina, la quale diventò grande amica di Francesca. Immancabili le fotografie della Woodman ma anche degli artisti a cui si ispirò. Il libro indaga soltanto gli anni che la fotografa trascorse nel nostro bel paese, in particolare a Roma, facendoci scoprire una ragazza entusiasta della vita, con un’estrema voglia di sapere, di conoscere, di fare nuove amicizie e soprattutto di creare. Una ragazza giovane, bellissima, con la pelle chiara e dei lunghi capelli biondi. Un angelo? No, troppo scontato. Dentro di lei c’era anche un animo inquieto che non le permise mai di raggiungere il paradiso, né quello terreno né quello ultraterreno. Perché gli angeli che si suicidano non vanno in cielo. Così ci hanno insegnato.

Eppure il pensiero della morte non affiora mai nelle pagine di questo piccolo libro. Francesca era ancora viva quando arrivò in Italia. Solo più tardi iniziò a morire dentro. Si gettò da un palazzo a New York il 19 Gennaio del 1981. Aveva 22 anni. Una ragazzina agli albori dell’esistenza. Ma lei credeva di avere visto e capito già tutto. Forse pensava di non avere altro da sperimentare e conoscere o semplicemente non le interessava più nulla, men che meno di se stessa. Isabella Pedicini ha fatto una scelta coraggiosa. Tra le pagine di questo libro non si dice né come né dove Francesca si sia suicidata. “Il 19 Gennaio abbandona volontariamente la vita.” Queste le uniche parole usate per descrivere la fine dei suoi giorni. Perché per la Pedicini non è importante trattare quell’argomento che troppi hanno sfruttato. Per lei è importante fare un ritratto della Woodman che sia in grado di esprimere la sua grande voglia di vivere.

E allora eccola lì Francesca. Una ragazza che nasce a Denver il 3 Aprile del ’58 e che arriva a Roma per seguire i corsi europei del RISD nel ’77, la scuola di design che già frequentava a Providence. Rimase affascinata dal fermento artistico italiano di quegli anni. Mica come adesso. A Roma trovò degli amici, soprattutto presso la libreria Maldoror che aprì proprio nel ’77, dove Francesca tenne anche la sua prima mostra personale. Figlia di artisti -la madre era insegnante d’arte e ceramista, il padre fotografo e pittore- furono i genitori a comprare una casa ad Antella nella campagna fiorentina, dove si trasferirono per un anno intero. Fu in quel periodo che la Woodman, frequentando la scuola pubblica, imparò a leggere e scrivere in italiano. Famosa per i suoi autoscatti, Francesca non era una narcisista. Con il suo lavoro cercò sempre di indagare il suo io più profondo.

Arrivò a Roma con un’amica. Il suo appartamento in affitto era proprio vicino alla libreria Maldoror, gestita da Giuseppe Casetti e Paolo Missigoi. Fu proprio all’interno di Maldoror che Francesca conobbe anche Sabina Mirri e fu in questa libreria che la Woodman, forse per la prima volta in vita sua, si sentì a casa, circondata com’era da artisti e intellettuali che che le resero il clima di quell’ambiente assai familiare. Fu tra questi scaffali che scoprì gli “Esercizi Graduati di Geometria” che la portarono a indagare il simbolo geometrico come orientamento dell’uomo nello spazio e nell’ambito vitale per orientarsi in un mondo caotico. Nel testo della Pedicini si trovano molti racconti delle persone che in quel periodo ebbero modo ci frequentare Francesca, come le testimonianze di Casetti o di Missigoi. Sono presenti anche alcuni estratti delle lettere che l’artista scriveva ai suoi nuovi amici, dove compaiono i suoi stati d’animo, i suoi turbamenti, ma anche i suoi progetti, i suoi sogni, le sue ambizioni, che erano tante. Casetti, per esempio, descrive Francesca come una ragazza generosa, timida e sola, che nel suo eccesso di vitalità rincorreva una sorta di melancolìa e che non potendo vivere senza poesia cercò di scassinare la realtà mischiando la rabbia con l’utopia. Il valore di negazione di Francesca e il suo volersi sottrarre ai codici furono il suo privilegio, ma anche la sua condanna. Secondo Casetti Francesca morì per eccesso di vita e non per disperazione, quella stessa vitalità che si sente bruciare dentro le sue opere. La Pedicini sembra aver voluto pubblicare questo libro per contrapporsi a tutti coloro che considerano il lavoro della Woodman funereo. Le foto della Woodman, infatti, secondo la scrittrice e critica d’arte, infondono la potenza del fuoco ardente e la mestizia della cenere e non qualcosa di macabro e solamente angosciante e inquietante, etichette che vanno strette al lavoro della fotografa. Anche Giuseppe Gallo, infatti, descrive Francesca come una persona attiva, piena di voglia di fare, solare e non negativa, perché secondo lui, gli individui negativi, sono coloro che lavorano poco, che sono svogliati, demotivati e che così facendo producono davvero cose drammatiche. Francesca no. Purtroppo però, come dichiara Gallo nell’intervista alla Pedicini, l’energia quando non trova sfogo diventa per forza autodistruzione e Francesca non ebbe modo di realizzarsi veramente perché in quel periodo, in Italia e non solo, era la pittura ad aver preso il sopravvento rispetto ad altri linguaggi espressivi.

La Woodman ebbe modo di conoscere anche artisti come Piero Pizzi Cannella, Giuseppe Gallo e tanti altri pittori che incontrava presso l’ex pastificio Cerere di Roma dove si trovavano degli atelier. Francesca lavorava molto in quel periodo, era piena di stimoli e la Pedicini usa anche fotografie di Man Ray, Brassai, Cahun, Weston, Outerbridge, per farci capire da dove traesse ispirazione, descrivendo molto bene la minuzia che l’artista usava nel suo lavoro, le tecniche, come nasceva l’idea che poi dava vita a un scatto. Perché nelle sue fotografie c’erano anche gioco, ironia, humour che spesso tanta critica non ha neanche mai nominato, preferendo dare più rilevanza al senso tragico dell’immagine in sé. Ma dietro quello scatto c’era una persona, una ragazza che rideva e si divertiva lavorando, dando vita alla sua arte. E’ questo che la Pedicini non vuole farci dimenticare neanche per un attimo durante la stesura di “Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola.” Gli oggetti scelti e utilizzati per i suoi scatti, per esempio, erano appositamente inseriti per rendere le foto inquietanti ma anche bizzarre, mai banali e convenzionali.

La Pedicini scomoda anche Francis Bacon per cercare di spiegare al meglio il lavoro della Woodman. Perché anche questo grande pittore era cerebralmente pessimista ma nervosamente ottimista. Lui credeva nella vita nonostante la sua capacità di rappresentare al meglio la “brutalità delle cose”. Bacon deforma, la Woodman trasforma. Ma entrambi non rinunciano mai alla figura, anzi, cercano di riaffermare la figura stessa. La critica d’arte si chiede se Francesca abbia osservato Bacon per arrivare, come lui, a rendere così bene la solitudine della figura all’interno di uno spazio scarno per “non rendere il visibile, ma rendere visibile” come citava la formula di Klee. Perché è vero, anche la Woodman “nel suo grido disperato ha cercato di anelare al sorriso”, come scrive la Pedicini, facendoci intendere che con le sue foto cercava di mettersi a nudo e mostrarsi per dichiarare la propria esistenza nel reale, un po’ come per le performance artistiche, che in quegli anni avevano iniziato a prendere piede. Il corpo come medium, come tramite, usato anche dalla Abramovic, dalla Pane e tante altre. Francesca, nelle sue foto, cerca di diventare un tutt’uno con la natura e il mondo circostante, compiendo una sorta di vera e propria metamorfosi, seguendo i tratti della mitologia greca. La Pedicini spiega benissimo tutto questo paragonando il coraggio di Francesca addirittura a quello di Icaro per il suo slancio e la sua determinazione. Ed è solo qui che la scrittrice accenna alla morte della Woodman, anche se non in maniera esplicita. Usa il mito e le metafore per farci capire che cosa, secondo lei, spinse la fotografa a compiere un gesto così estremo. Prova a descrivere la morte come un semplice cambiamento di stato, un passaggio a una modalità diversa -citando le sue parole- un ritorno alla matrice universale, dove la forma si modifica, semplicemente, per ritrovare la vita delle cose.

Come sosteneva Schopenhauer, il nostro unico innato errore, forse, è sempre stato quello di credere che noi esistiamo per essere felici. E se la Woodman avesse davvero capito il senso delle cose? Forse lei lo aveva capito benissimo che non siamo fatti per questo mondo, per trovare la felicità qui, sulla terra. E non c’entra assolutamente nulla la religione, il paradiso, l’inferno, il peccato originale che in teoria ci sta facendo penare ancora oggi su questo pianeta. Il discorso va oltre, ben oltre i meandri di una spiegazione quasi logica, comunque umana e che si aggrappa alla religione, un qualcosa in parte anche inventato da noi uomini. La cosa certa è che Francesca credeva di aver visto e vissuto abbastanza, già a 22 anni. Non era stanca di vivere, semplicemente pensava che quello che lei poteva dare e ricevere si fosse esaurito lì. Troppa consapevolezza e sensibilità sono difficili da sopportare, d’altronde. Non le interessavano più le questioni terrene di questo mondo. Chissà se dall’altra parte sarà riuscita a dare un senso alle cose, a trovare le risposte che cercava.
Lei ha in mano la verità già da 32 anni…

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