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Come siamo. Cattelan spoke from London

Maurizio Cattelan, Bidibidobidiboo, 1996; courtesy Collezione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Da qualche settimana avevo deciso di operare una minima deroga agli assunti di questo blog che rivela attraverso l’analisi quasi “profetica” di antiche o più recenti pubblicazioni del mondo dell’arte alcuni aspetti straordinariamente attuali della nostra civiltà del III millennio.

Poi l’innata pigrizia prende il sopravvento e attendo un poco, anche perché ciò di cui disquisirò oggi con il mio piccolo pubblico è faro appena spentosi, poco più di un mesetto fa, ancora nell’ horribilis 2012. Volevo far passare qualche altra luna, ma i tempi sono maturi.

Difatti, un singolare articolo apparso proprio qui su Artslife pochi giorni addietro a firma di un collega di Testata, Gian Paolo Serino, che ha suscitato la mia (professionale, mai personale) irritazione, mi spinge ora, e a maggior ragione, a rendere conto in merito al più chiacchierato e (da noi Italiani) avversato artista contemporaneo, il Maurizio Cattelan che – all’estero, e non lo sapevo – si fregia anche di far la parte dell’inveterato rubacuori.

Il casus si deve alla mostra di ottimo livello tenutasi per poco più di due mesi sino al 2 dicembre scorso presso la nobile Whitechapel Gallery di Londra che ospitò (e ospiterà) la “Sandretto Re Rebaudengo”, prima di una serie di “puntate” monografiche sui grandi nomi presenti nella ricca collezione della nostra Signora dell’Arte Contemporanea, quasi altrettanto disamata in Patria quanto il suo protetto. Di tale evento si scrisse e analizzò in lungo, largo e obliquo per ogni dove, essendo – tra l’altro – il 2012 l’anno di punta del Nostro, apertosi con l’attesissima personale al Guggenheim Museum di New York, costellato da dichiarazioni d’intenti di varia natura, apparizioni (in)attese, donazioni forzose (?) al Comune di Milano e via così dicendo.

Ciò in parziale contraddizione con quanto riportato dal mio esimio collega, e non solo da lui qui in Italia, circa il presunto fallimento (o la presunta “poetica del fallimento”) di Cattelan in arte, questione che molti non disdegnano sottolineare nella realtà dei fatti con ben poche valide motivazioni. Se penso alla straordinaria parabola cattelaniana dell’ultimo decennio, constato un percorso così luminoso che ben pochi artisti al mondo possono vantarsi di aver tracciato ai nostri tempi. Sarà vera gloria? Temo non potremo saperlo se non fra qualche lustro, ma i presupposti perché lo sia ci sono tutti: e non solo (o soprattutto) per i méntori chiacchieratissimi o per il disapprovatissimo (in Italia, Paese in eterno conflitto con l’economia dell’arte) successo di mercato… E sarà interessante, se mai le quotazioni di Cattelan dovranno flettersi – come accade oggi a quasi tutte le grandi firme del contemporaneo mondiale, peraltro -, verificare se davvero morirà il mito con il portafoglio. Io non credo.

Chissà quanti accaniti e geniali avversatori di Boldini si lanciarono in invettive contro il loro “paratissimo” collega, eppure, fra i molti ben migliori di lui, a cominciare dal suo amico nonché critico Telemaco Signorini, egli solo o quasi ricordiamo (a tratti con venerazione) nella ritrattistica formale europea di fine ‘800.

Non ho la minima intenzione di soffermarmi sull’arte di Cattelan (ricordo una ruggente quanto interessante disputa proprio su queste pagine un paio d’anni fa o anche più indietro, agli albori della mia collaborazione con questa bella rivista…) che mi dà da pensare anzichenò, e pur tuttavia trovai geniale nell’invenzione di Permanent Food, opera ludico-surrealista che credo più si avvicini al carattere pubblicistico, introverso, poco propenso all’ilarità spinta e financo – chissà – lievemente autistico di Cattelan. Una sorta di manifesto che, per la mia opinione, rimane una delle migliori prove del genio artistico occidentale dell’ultima decade del II millennio.

Lo spunto per questa nota mi arriva dall’ottimo Internazionale, pubblicazione settimanale che raccoglie servizi da tutto il mondo (ha il pregio di presentare una questione indiana con l’opinione di un corrispondente giapponese, uno turco e uno canadese) e che dimensiona la nostra piccola Italia all’interno di conflitti continentali, in relazione ad argomenti di importanza globale di cui spesso non sappiamo esista un palcoscenico, e, di fatto, nella nostra stampa povera, inutilmente rissaiola, non di rado pròna al potentello di breve turno, non ne ha.

Mark Hudson, corrispondente musicale e artistico per The Daily Telegraph

Edizione del 16/22 Novembre 2012, n. 975, anno 20. A pag. 93, nella per la verità modesta rubrica dedicata alla Cultura, un piccolo box riprende in parte il commento qui anonimo de The Daily Telegraph che troverete per esteso in lingua originale e con la firma in evidenza di Mark Hudson nel link www.telegraph.co.uk/culture/art/art-reviews/9565015/Maurizio-Cattelan-Whitechapel-Gallery-Thomas-Schutte-Faces-and-Figures-Serpentine-Gallery-review.html in data 25 settembre 2012.

Hudson, scrittore di qualche fama e corrispondente per molte importanti testate come The Observer, The Mail on Sunday, The Guardian e The Sunday Times, è qualificato dal Daily come recensore di musica e “CDs”, ma presta la sua veloce scrittura all’arte visiva assai più di quanto egli stesso non mostri desiderare. E in effetti, per il web, è parecchio accostumato: poche righe ma non certo scarne, tre concetti base ben espressi e approfonditi, un’aggettivazione sempre ironica e puntuta che dona carattere alla nota… insomma un buon elemento per la generazione dei lettori senza carta. Cosa che mi fa crepare d’invidia e mi getta nel più profondo sconforto perché non sarò mai di quella genìa…

Nel giudicare la mostra un buon “tre-stelle-su-cinque” (esattamente quanto assegnato alla coeva personale di Schütte presso la Serpentine Gallery), Hudson esordisce così (nel testo inglese): This small but interesting selection of works shows a more serious Cattelan locked in an intense, troubled relationship with Italy.

E ciò perché alla Whitechapel l’allestimento e la selezione delle opere (solo otto) virano verso una precisa interpretazione dell’arte cattelaniana, tanto che ciò che noi (chissà perché) ci affanniamo a disprezzare, sembra essere quanto di meglio in Cattelan per lo Straniero.

Una copia di L.O.V.E. in dimensioni meno monumentali di quella donata a Piazza Affari a Milano è posta direttamente davanti al famoso tappeto Il Bel Paese del 1995.

Maurizio Cattelan, Il Bel Paese, 1995, diam. cm. 320, tappeto di lana

 

Poco più in là, pende il Cattelan impiccato che indossa pateticamente il feltrone di Beuys ne La Rivoluzione Siamo Noi del 2000; poi ancora il famoso neon delle Brigate-Rosse-Stella-di-Natale (Christmas ’95); il misero arcinoto scoiattolo suicida nel tinello di casa Cattelan a Padova; l’altro neon angolare con la firma Cattelan a tre T (una rappresenta una croce) del 1994; il calciobalilla delle razze (bianca e neroafricana dei migranti) fuori misura del 1991 (Cesena 47 – A.C. Forniture Sud 12 (2nd half-time)); il sacco di macerie provenienti dall’attentato di mafia al PAC di Milano del 1993 in cui morirono 5 persone, tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina nei giardini a fronte del Padiglione.

Maurizio Cattelan, Cesena 47-A.C. Forniture Sud 12 (2nd half-time), 1991
courtesy Collezione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Le opere e l’allestimento, volutamente asettico, hanno per Hudson (e non solo per lui, nelle recensioni che poi ho voluto cercare qua e là sul web) un tratto decisamente politico, nell’accezione più stringente del termine. Cattelan esprime un disagio che si fa solo in parte protesta, ma che rappresenta la sconsolata e mera constatazione di una realtà fallimentare (questa sì) in Patria, vista come un coacervo di servilismi, di abbrutimenti, di demagogie pericolose e perniciose, di disperazione.

L’analista inglese sottolinea la dimensione tragica del lavoro di Cattelan, che merita di essere così interpretato, anche se la modalità espressiva assume i panni del (mesto) gioco, di una sardonica presa in giro.

Lamentiamo da anni la mancanza di protagonismo di artisti contemporanei italiani che possano farsi portavoce internazionali del nostro disagio di vivere e di morire in un Paese che tradisce ogni aspettativa, ogni speranza di un futuro degno da lasciare ai nostri figli. Lamentiamo sempre e spesso che nessuna voce si faccia sentire alta per parlare della nostra condizione con i termini più consoni all’arte, ovvero non didascalici e localistici, ma poetici e universali.

Può non piacerci, di Cattelan, lo stile, ma certamente non dovremmo non apprezzarne l’intento, la poetica. Che – a ben osservare con occhi puri e “stranieri” – si investe del compito di portavoce culturale laddove tenta di parlare del suo tempo (spesso con profetico anticipo), della sua terra, della sua gente. E lo fa con strumento incisivo, smagato, poco propenso all’ironia, molto al sarcasmo, perché vede poche vie d’uscita (se anche gli scoiattoli si suicidano e pongono termine alla favoletta che tante volte ci hanno raccontato…).

Gli anglosassoni e gli occidentali in genere, per quanto ne so, vedono in Cattelan la massima espressione dell’arte contemporanea italiana e ne comprendono i motivi. Anche perché non c’è molto altro da vedere, in giro, di nostro, in tutta franchezza.

Noi sappiamo che c’è molta carne sul fuoco in Patria, che Cattelan non è l’unica voce, che i generi sono molti e tutti ben rappresentati, qualche scuola inizia a prendere il volo e ottiene il giusto plauso, almeno fino a quando la nostra innata astiosità e il nostro invido livore che ci impediscono sempre di fare squadra, ce la faranno disprezzare, così come pochi fiati prima la osannavamo. Ma che tuttavia la diffusione della nostra arte è penalizzata da una serie di fattori che tanto spesso ebbi modo di denunciare e che anche il nostro Direttore ricorda in una bella intervista sempre su Artslife a mano di Camillo Langone.

I primi a impedire la diffusione della nostra arte siamo noi, se neppure apprezziamo il successo che un nostro connazionale riceve da ogni landa del globo.

Siamo noi i primi ad arricciare il naso e a disinteressarci di fronte alle questioni importantissime che decapitano i passaggi di mano delle nostre firme: l’orrore dell’istituto della Notifica che congela la circolazione della nostra arte considerata come bene di lusso e non risorsa e testimonianza culturale, le tasse esosissime sull’acquisto delle opere, il ruolo inconcludente (per dir così) della S.I.A.E. posta a incrementare guadagni che non tutelano, con il diritto di seguito, i giovani autori, ma solo le grandi firme del passato e gli eredi (che, spesso, la memoria di quei grandi hanno contribuito a demolire), la nulla o quasi inesistente (ulteriormente penalizzata di recente) defiscalizzazione per i proventi in aiuto a Fondazioni o Enti culturali, gli iniqui e insensati balzelli richiesti a Musei stranieri che intendono organizzare mostre con opere italiane (dall’Antico al Contemporaneo) al grido “vuoi la nostra arte, devi pagare!”, laddove qui, sì, che il denaro conta in rapporto all’opera che si è pronti a “noleggiare” ben poco elegantemente. E, last but not least, l’inesistente opera dell’Ente Pubblico per la promozione della cultura antica, moderna e contemporanea, lasciata, quando ci si riesce, alle buone (o meno buone) intenzioni dei Privati, sempre e comunque avversati dai soliti benpensanti, priva di una legislazione che tuteli con giustizia chi è disposto a fare e chi dispone del nostro Patrimonio.

Faranno a meno di noi, molto presto. E già si vede il baratro. L’enorme divario che ci pone ai margini della galassia dell’arte mondiale. Diventeremo provinciali, davvero, come mai siamo stati in tutta la nostra millenaria e gloriosissima storia di arte e cultura. Anche con l’ostracismo a Cattelan, che si può giudicare – come è giusto che sia – in base al proprio “gusto”, ma non si può fare a meno di osservare e apprezzare per la diffusione che ebbero il suo metodo, il suo stile, la sua “maniera”. La quale maniera, mi spiace ancora essere in disaccordo con Serino, non mi risulta abbia epigoni, a meno che non si intendano “cattelaniani” tutti coloro che utilizzano il calembour e la facezia per costruire un mondo poetico di pura invenzione, ma terribilmente attinente (tanto che potrebbe stemperare l’efficacia del messaggio nel tempo) alla quotidianità. E, ancora e soprattutto per questo, non trovo molti epigoni di Cattelan di questa fatta.

Perché pensiamo che gli altri vedano a torto ciò che noi riteniamo non abbia alcun peso, anzi sia addirittura una truffa? Perché consideriamo il nostro occhio, velato da questioni che con l’arte non hanno nulla a che fare, infallibile mentre tutti errano? Non ci sfiora il dubbio, almeno un piccolo dubbio, che, forse, varrebbe la pena rileggere la parabola di Cattelan almeno per comprenderne la fortuna (e non il presunto fallimento, che è ben lungi dall’essere realtà)?

Forse perché, in fondo, abbiamo ribrezzo o timore di vederci così rappresentati? Non siamo noi i primi a lamentarci della nostra classe dirigente, delle mille mafie che impediscono di far emergere il merito, della nostra imbelle incapacità alla reazione, della nostra folle corsa verso l’autoeliminazione dalla congerie dei Paesi industrializzati del cosiddetto Primo Mondo?

E, allora: perché non diamo credito a un nostro artista che è noto ovunque e porta questo stesso stendardo con più fatica di altri? Solo perché non compaiono tele e pennelli spesso d’accademia, video e installazioni incomprensibili, performances senza mordente? Perché il significato di quell’arte non è nascosto, ma lampante: quell’opera E’ ESATTAMENTE CIO’ CHE VUOLE RAPPRESENTARE e non sopportiamo che sia così, abbiamo necessità ancora di sogni e illusioni, mediazioni formali, ponti linguistici, metafore immaginifiche?

Non vogliamo davvero vedere la realtà come è, in tutta la sua nefanda crudezza?

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