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London journal – 29 giugno 2012

La prima metropolitana del mattino a Londra è già piena dopo poche fermate dal capolinea. Sono solo le 5 e mezza, e io ho dormito veramente troppo poco. Sono in movimento verso Heathrow: dopo dieci giorni nella City è tempo di tornare in Italia. Ieri sera l’asta di Phillips de Pury è stata uno spasso, davvero la festa dell’ultimo giorno di scuola. Tutti sono stanchi, chi è arrivato in città per seguire le aste, oggi, come me, torna a casa. Gli americani non rientrano da ormai venti giorni di ininterrotti appuntamenti europei, da Art Basel alle aste di Londra. La serata è davvero divertente. Simon de Pury esordisce dalla sua postazione di auctioneer con la rassicurazione, “chi, come me, ha fretta di vedere la partita degli Europei, non si preoccupi. Faccio in fretta e poi giù da basso accendiamo la televisione”. Applauso spontaneo della sala, con anche Larry Gagosian che sorride (Gagosian!).

Come al solito Simon conduce l’asta con tutta la sua verve mediterranea, parlando cinque lingue, salutando per nome gli amici mercanti in sala e sbattendo così forte il martelletto, mentre con il suo accento francese urla “sold!”, che ho male alle orecchie a ogni lotto venduto. La sala è semivuota, ma forse non mancano quelli che contano: dealer e collezionisti. Ai telefoni è schierata la compagine degli esperti di Phillips, tra cui Michaela, la moglie di Simon. Alle aste di de Pury pare a volte di essere immersi in un business familiare: poco dopo il matrimonio tra Simon e Michaela, durante le aste Simon non rinunciava a rivolgersi a lei come “my wife” ogni volta che Michaela, collegata al telefono con qualche cliente, alzava la mano per fare un’offerta. Istrionico e spiritoso, Simon de Pury conquista la sala e la conduce in un vortice poliglotta e di fanciulleschi entusiasmi. Inoltre è anche un ottimo organizzatore di feste, tanto che, promessa mantenuta, dopo l’asta ci fiondiamo un po’ tutti davanti allo schermo appeso nella hall.

Ad accoglierci troviamo dei divani come-se-fossimo-a-casa e due vassoi di birre ghiacciate: da una parte Beck’s, dall’altra Peroni. Il pubblico si schiera, nasce il divano degli italiani e (dietro) quello dei tedeschi. Tutti tifano, a parte i malcapitati inglesi che ancora non gli è andata giù la sconfitta della scorsa domenica, e the others: gli americani, i canadesi, e chi più ne ha più ne metta che si ritrovano in mezzo a una baldoria che non gli appartiene. Mi viene in mente che anche due anni fa Simon de Pury aveva ospitato gli italiani per vedere la partita. Erano i Mondiali del 2010. Era un caldo pomeriggio di fine giugno e Simon aveva avuto l’idea di far venire un gelataio, quelli con il carretto come una volta. Negli spazi allestiti con la preview dell’asta avevamo mangiato coni al pistacchio e tifato Italia, se non che avevamo miseramente perso. Speriamo che questa volta vada meglio.

Di fronte a una partita di pallone tutti sono uguali: la piccola comunità dell’art business che fino a un momento fa era divisa in rigide caste, diventa un tutt’uno. Che il tifo calcistico sia una forma evoluta di socialismo democratico? Tutti dicono la loro, le birre vanno a ruba, Simon de Pury è lì accanto che non stacca gli occhi dalla televisione. Primo goal – e un timido urrà. Secondo goal – e la sala dove si è appena battuta un’asta milionaria si lascia andare in un boato. Già l’asta, quella che poco fa ha decretato il nuovo record price per la coppia di artisti e amici Warhol-Basquiat, che ha lasciato a bocca asciutta il mercante newyorkese Nelly Namahad dopo rilanci a colpi di centinaia di migliaia di sterline per aggiudicarsi il Basquiat, che ha raccolto un totale di 23 milioni di sterline che per Phillips non sono niente male. 2 a 1. La partita è finita, siamo tutti contenti. Meglio rientrare, ho ancora del lavoro da sbrigare prima di domattina quando, tra meno di cinque ore, dovrò alzarmi e infilarmi nel primo treno del mattino, che, a Londra, non c’è neanche un posto libero già poche fermate dopo il capolinea.

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