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LEO CASTELLI

LINEA D’OMBRA

un capitolo tratto da
“Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America”
di Alan Jones
Castelvecchi Editore

di Alan Jones

“I decenni non arrivano sempre puntuali, spesso iniziano prima, o finiscono dopo, di quanto dovrebbero secondo il calendario. Gli artisti che sarebbero stati associati agli anni Sessanta avevano iniziato la loro carriera artistica alla fine degli anni Quaranta e durante i primi anni Cinquanta, in luoghi come New York e il Black Mountain.

Quali erano i risultati che aveva ottenuto Leo nel corso dei primi tre anni di attività pubblica della sua galleria? A posteriori, risulta evidente che era riuscito in qualche modo a mettere insieme un gruppo di artisti che avrebbe costituito le fondamenta sulle quali erigere la nuova estetica dei decenni a venire: Jasper Johns, Robert Rauschenberg e Frank Stella, un trio di artisti proto-pop e proto-minimalisti. Il loro esempio sarebbe stato d’ispirazione al gruppo successivo dei protagonisti dell’arte americana, che già si preparavano a comparire sotto le luci della ribalta: Roy Lichtenstein, Andy Warhol, James Rosenquist che dialogavano con Johns e Rauschenberg, e Donald Judd con Frank Stella. Questi ingredienti promettevano un decennio molto interessante.

Gli anni Sessanta – apice della Guerra Fredda e di un’epoca senza precedenti in quanto a prosperità economica, profondi mutamenti sociali e grandi innovazioni tecnologiche- erano in realtà già iniziati nella pigra Età dell’innocenza degli ultimi giorni della presidenza Eisenhower: come diceva lo slogan della Guardia Nazionale: ‘Dormi bene stanotte: la tua Guardia Nazionale rimane sveglia?’.La Presidenzadi John Fitzgerald Kennedy non durò più di mille giorni. Il sistema degli studios di Hollywood, che fino ad allora aveva dominato negli Stati Uniti monopolizzando l’intrattenimento popolare, cedeva il passo al dilagante successo della cultura televisiva, con le celebri trasmissioni Howdy Dooiy, Jack Benny, Dinah Shore e You Bet Your Life, il popolare quiz di Groucho Marx. L’industria pubblicitaria, intimamente connessa alla rivoluzione giovanile, fece il suo trionfale ingresso nell’Età dell’oro non appena i cittadini si trasformarono in consumatori.

E’ abbastanza ironico che, oggi, parlare di Pop Art richieda una certa prospettiva storica: Leggere le istruzioni prima dell’uso. Non bisogna dimenticare che la patina di nostalgia che avrebbe circondato questo movimento artistico per i successivi quarant’anni era assolutamente fuori luogo. Le opere Pop furono concepite come delle non-icone: erano assolutamente del momento, tanto eterene e attuali quanto un albero di Natale finto. Oggi, l’ora della Pop Art è diventata un allora, difficile da capire –così come è impossibile immaginare il violento impatto che ebbe l’Olympia di Manet la prima volta che venne esposta in pubblico a Parigi.

Se Andy Warhol avesse dipinto un calendario, non avrebbe avuto né giorni, né mesi, né anni. Un ritorno alla rappresentazione? No: niente fu più astratto della Pop Art. E’ stato un metodo suprematista per far entrare in collisione la lontananza del Classicismo con un concentrato di eterna attualità, riducendo passato e futuro a un impossibile qui e ora. La ‘piccola eternità’ di un Henry James o di un Joseph Cornell poteva essere scoperta guardando la pubblicità di un dentifricio su un giornale.La PopArtha inventato i suoi miti man mano che procedeva. Dimenticatevi di Somewhere Over the Rainbow e del Mago di Oz: gli artisti scoprirono che il mondo, dopo tutto, era pieno di ready-made, e che il Mago di Oz era il caporedattore della rivista ‘Vogue’ alla Condé Nast. Ora, il conte di Lautréamont suonava il basso con Edgar Allan Poe e Il corvo, Rimbaud e Djuna Barnes venivano filmati seduti su un sofà con una granulosa pellicola Super8, e Constantin Guys stampava serigrafie in un loft illegale sul Lower East Side.

La PopArtfu il perfezionamento della demenza semi surrealista degli artisti beat: non una celebrazione di quello che in seguito Gillo Dorfles avrebbe definito ‘kitsch’, quanto piuttosto un’accettazione dell’oggetto immediato, rimasto fino ad allora inutilizzato. Lo shock provocato da poche persone ora era a disposizione, in tutti i negozi. Eppure, le radici del Pop erano più letterarie di quanto si potesse immaginare. E.E. Cummings e Frank O’Hara giravano per il Greenwich Villane già da un pezzo, e la rivista ‘View’ di Charles Henri Ford aveva già presagito molto bene tutto quello che stava succedendo. Gli Stati Uniti erano surrealisti già prima che i surrealisti attraversassero l’Oceano per confermarlo. Ma fra i simili ci si riconosce. Offerta valida fino a esaurimento scorte.

Ossidazione del Surrealismo? Soddisfatti o rimborsati! Nuovo e perfezionato! Novità, novità, novità! Una nave piena di occasioni: affrettarsi all’imbarco! Nessuna precedente esperienza. Non servono studi. Niente Nietzsche, Heidegger, Benjamin o Sartre. Con coloranti aggiuntivi. Made in USA: la più grande serra del mondo di realistici Fleurs du Mal. Paghi uno e prendi due! Offerta valida per un periodo limitato.

F. Scott Fitzgerald una volta provò a cimentarsi con la pubblicità, ma poi si accorse di non avere lo stomaco per questo tipo di lavoro. La generazione era diventata maggiorenne durantela SecondaGuerraMondiale ora dava un bel po’ di cose per scontate, come le T-shirt, le docce, le scarpe da tennis, la carta assorbente, il cibo cotto al vapore, le medagliette per i cani, i sacchetti di carta, i libri in brossura e l’abbondanza del cibo. In breve, una massificazione sociale che avrebbe rallegrato il cuore di un antico cittadino di Sparta, oppure di Joseph Stalin. E proprio nel salotto di casa vostra!

I nonni avevano messo su una fattoria, le madri e i padri erano sopravvissuti alla siccità, i fratelli maggiori si erano arruolati per combattere le forze dell’Asse e ora andavano ai ristoranti drive-in, facevano le loro ordinazioni a delle cameriere sui pattini e mangiavano direttamente in macchina. I successori dell’ultima eroica generazione di artisti. L’Espressionismo Astratta, gli ultimi ‘veri’ pittori, ereditarono una realtà fatta di plastica e transistor, di supermercati e case prefabbricate. Era ciò che rimaneva del ‘diamo tutti una mano’ nello sforzo bellico. Ma col Victory Day (‘giorno della vittoria’), il livello di adrenalina diminuì. Adesso, una generazione di artisti si arruolava volontaria per la
pulizia delle latrine. Nessuno avrebbe capito l’ironia viscerale di questa missione suicida ancora per un bel pezzo. Una beffa colossale come piattaforma per una Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) mai vista prima da questo lato del Checkpoint Charlie.

Inoltre, gli Stati Uniti avevano moltissimo da offrire. Dopo la fine della guerra, Man Ray scappò via appena possibile da Los Angeles, dicendo che non poteva reggere la competizione: nessun surrealista avrebbe potuto competre con la vena di kitsch virulente del paseaggio urbano californiano. La fabbrica delle immagini era a pieno regime, ventiquattr’ore su ventiquattro. E Hollywood non si accorse neanche che Man Ray se ne era andato. Chi, quel tipo col pizzetto? Gli studios non avevano quasi mai bisogno di cercare talenti. Hollywood uccideva il talento, ela PopArtsi limitò a scriverne il necrologio.

Le icone erano giovani, e vive. Erano gli dèi viventi, che sfrecciavano per le strade di Los Angeles e New York al volante delle loro macchine sportive o venivano scarrozzati su limousine. James Dean, Jackie Kennedy, Litz Taylor, Elvis Presley, Marilyn Monroe, Malron Drando: quello che importava non era né il passato né il futuro, ma un totalizzante tempo presente. Per essere Pop, i dipinti appesi ai muri dovevano essere aggiornati quanto i tabloid dell’edicola all’angolo.

Un bel giorno, la ‘comunità mondiale’ si svegliò -generalmente si prende un periodo di riposo prima e dopo una guerra mondiale- e si accorse che il lungo periodo del Dopo Guerra era finalmente terminato e chela GuerraFreddaaveva prontamente preso il suo posto come sfondo non solo della vita quotidiana di ogni cittadino, ma anche delle motivazioni di ogni atti creativo dell’artista. Questa battaglia ideologica prolungata distorse e esaurì quasi del tutto le nergie di entrambi i lati della Cortina di Ferro. In URSS c’erano i gulag e negli USA l’opposizione alla Guerra nel Vietnam, le tensioni razziali sul punto di esplodere, la rivolta giovanile generalizzata, la contro cultura, sesso, droga e Rock’n’Roll.

Per quanto riguarda il mondo dell’arte, gli anni Sessanta avrebbero assistito a tre principali mutamenti di stile: il passaggio dall’astrazione di seconda generazione alla Pop Art e agli inizi del multimediale, poi all’avvento del Minimalismo e, infine, a quello dell’Arte Concettuale, con il suo seguito di Fluxus, Land Art, Body Art e Performance Art –il tutto nel giro di soli dieci anni. Col passare del tempo, i pricnipali protagonisti di quasi tutti questi movimenti sarebbero entrati a far parte della scuderia Castelli.

‘Sono appena tornato da Roma’ dice Gorge Peppard, impermeabile in spalla, all’elegante Audrey Hepburn, sui gradini di una casa di Manhattan. Era il 1961. Il film è Colazione da Tiffany, diretto da Blake Edwards e tratto dal romanzo di Truman Capote. Quest’ultimo, vent’anni dopo, avrebbe spesso chiuso la discoteca Studio54 incompagnia di un pantheon di superstar del Pop, e la fama giovanile di cui aveva goduto nei primi anni Cinquanta era stata una delle ossessioni del grafico pubblicitario Andy Warhol, prima di iniziare la sua ascesa nell’ambiente rarefatto dell’arte sublime. Guardando il film Colazione da Tiffany oggi, è possibile cogliere solo qualche accenno al radicale mutamento che sarebbe esploso nei cinque anni successivi.

Ma una delle eredità più durature degli anni Sessanta sarebbe stata il ruolo giocato da mass-media nella diffusione generalizzata della bohéme. Questo patrimonio contro culturale è arrivato fino ai nostri giorni, dalla sua improvvisa eruzione nel 1966 colla stagione dell’amore, iniziata al Golden Gate Park di San Francisco. La cultura Pop fu un fenomeno lanciato dai mass-media, dall’industria della musica, dalla televisione e dalla carta stampata (che cercava disperatamente di far fronte ai suoi nuovi concorrenti): ognuno di essi portò a persone di ogni genere non solo la stessa cultura pop nella sua forma grezza, ma alla fine anchela PopArtstessa, che piacesse o meno ai suoi destinatari. In questo senso i mass. Media e la loro forza motrice, l’industria pubblicitaria, erano degli alleati che seguivano assiduamente ogni singolo passo della nuova estetica promossa nientemeno che da Leo Castelli.

Scordatevi della Madre Coraggio di Bertold Brecht. Ora c’era Big Mama Cass, nota cantante dei Mamas & Papas, che raggiungeva via etere ogni angolo del Paese, invece di fare ‘teatro-guerriglia’ all’angolo della strada.

La rivoluzione dei mass-media ebbe una portata molto più vasta di qualsiasi cosa Lenin avesse mai immaginato nei suoi folli sogni. La cultura pop era il nuovo Agit-Prop, e ora la diffusione dei suoi messaggi poteva beneficiare delle nuove tecnologie della comunicazione, totalmente sconosciute sulla Prospettiva Nevskij. Adesso, chiunque poteva non solo diventare famoso per quindici minuti, come ha assicurato Andy Warhol, ma anche godere di tutti i privilegi e i piaceri che il Greenwich Villane aveva a lungo riservato a pochi eletti: decadenza democratizzata, la vie bohème universalizzata. Sela BeatGenerationera stata, nella migliore delle ipotesi, un piccolo gruppo di anticonformisti al margine di una società conservatrice, ora il movimento hippie, grazie ai mezzi elettronici di diffusione di massa e alla musica pop, stava entrando dritto nel cuore dei costumi convenzionali della borghesia, portando in ogni casa un virus di anticonformismo ancora più contagioso di quello diffuso dai fannulloni beat.

Il decennio si era aperto sotto i buoni auspici del carisma giovanile di John Fitzgerald Kennedy con Gorge Peppard e Audrey Hepburn che sorseggiavano Martini in Colazione da Tiffany e con un’anziana grassa signora in abito da sera anni Trenta, di nome Kate Smith, che cantava God Bless America (‘Dio benedica l’America’) in Tv. Ma gli anni Sessanta terminarono prematuramente dopo sette brevissimi anni, nel 1968, con le sommosse che si scatenarono a Chicago in occasione della convention del Partito Democratico, e con gli Stati Uniti che finivano sotto la mano pesante di Richard Nixon. Ora non c’era più Audrey Hepburn in abito da cocktail, ma Janis Joplin con i suoi boa di piume, e invece di quel bravo ragazzo di George Peppard ora c’erano Peter Fonda e Dennis Hopper in Easy Rider sotto l’effetto dell’LSD, mentre Jimi Hendrix suonava The Star Spangled Banner, l’inno nazionale americano, al festival di Woodstock. Ci vollero solo cinque anni, dal 1963 al 1968, perché si passasse dai capelli a spazzola ai capelli lunhi, dal gessato agli abiti chiné, dallo chic al grounge, dalle bandiere di Jasper Johns esposte alla Castelli Gallery alle bandiere bruciate in piazza. Non ci sarebbe voluto poi molto.

Dal ponte aereo per Berlino al bombardamento del Laos, dalle dissolute Women (‘donne’) di De Kooning alla freddezza imperscrutabile delle mucche di Andy Warhol, serigrafate su carta da parati con precisione fotografica. Quando il critico d’arte britannico Lawrence Alloway applicò per prima nel 1958, l’etichetta ‘Pop Art’ a questa nuova forma di pittura, era già troppo tardi per tornare indietro. Ivan Karp, per un po’, l’aveva voluta chiamare ‘Commonisme’ e Sidney Janis ‘New Realism’. Ma all’epoca sembrò che lo slogan ‘Pop Art’ fosse stato coniato quasi a fatto compiuto.La PopArtera stata programmata per auto-distruggersi, come il razzo ausiliare di un missile che si stacca dopo aver portato il suo shuttle fuori dall’orbita terrestre, e viaggiava quasi alla velocità della luce.

Mentre la gran parte dei mercanti d’arte se ne rimase in disparte a guardare tutto lo spettacolo, al sicuro sul bagnasciuga, la galleria di Castelli rappresentò la piattaforma di lancio di questo nuovo razzo: fu insomma l’equivalente artistico della base spaziale di Cape Canaveral. E infatti gli astronauti, durante la loro passeggiata spaziale, lasciarono delle opre in miniatura della Pop Art americana sulla superficie della Luna: articoli da collezionisti che il mercato secondario non era stato ancora in gradi di far fruttare. La pepita della Pop Art doveva essersi nascosta in un cratere lunare.

‘I mercanti d’arte sono anche detti creatori di mode’, ha più volte affermato André Emmerich, mercante d’arte newyorchese di terza generazione specializzato nell’Espressionismo Astratto di seconda generazione: ‘credo sia un malinteso. Non sono un creatore di mode più di quanto non lo sia Leo Castelli. Entrambi non siamo che capibranco. Questo perché provammo per primi tutto ciò a cui gli altri arrivarono un po’ più tardi. Tutto sta nell’essere capaci di individuare e sperimentare le mode in anticipo, in modo istintivo, con sensibilità ed entusiasmo. I mercatni d’arte sono come dei surfisti: le onde non si creano, e se non ci fossero sarebbe la fine. Ma il buon surfista può capire quale fra le onde in arrivo è quella giusta, quella che durerà. Ecco: i mercanti d’arte di successo hanno la capacità di cogliere le onde giuste’.

Non appena la società americana attraversò la linea d’ombra degli anni Sessanta, travolta dalla corrente impetuosa dei disordini sociali,la LeoCastelliGallery emerse come il principale punto di riferimento di una caotica nuova cultura ancora in fieri. Castelli aveva trovato l’onda più alta, almeno così sembrò all’epoca, e l’avrebbe cavalcata per molti anni a venire. Era un grande risultato, di cui essere fieri, ma erano anche in molti a considerarlo come una specie di sacrilegio imperdonabile.

 

 

 

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