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VENEZIA, TUTTI SUL BANAL GRANDE

ho spento gia’ la luce 
son rimasto solo io 
e mi sento il mal di mare… 
(Dik Dik)

ILLUMInazioni un beato cacchio, qui non si vede niente nel senso che la mostra centrale, quella ai giardini, nell’ex padiglione italiano per intenderci, è la solita babele cacofonica costituita da un’

accrochage di opere che non hanno alcuna relazione tra loro e con il titolo della mostra e tanto meno con gli sbandierati Tintoretto che negli intenti della curatrice costituivano il “cappello” del progetto. Fiumi d’inchiostro versati in prestigiose interviste alla direttrice Bice Curiger per tentare di dar senso a quel che un senso non ha, a partire dal titolo che avrebbe potuto essere uno qualsiasi, che so, TRASFORM(n)azioni, RIVELazioni, ALTERnazioni, ASSORETA…! Ok, proseguiamo. Ad accoglierci c’è la cubitale scritta “illuminations” di Josh Smith sulla facciata dell’edificio seguita da luci intermittenti tipo luna-park, come un Thomas Kinkade painter of light qualsiasi, a ribadire quel che ci attende, manca solo Vincent Price con mantellina nera ad introdurci nell’antro del mistero che, invece, è solo la spelonca della noia, interrotta raramente come nel caso delle opere di Luigi Ghiri e David Goldblatt. Per il resto l’ennesimo omaggio a Sigmar Polke, una sorta di “personale” di Christopher Wool che presenta otto grandi serigrafie su lino, una sorta di Rorschach test a testimoniare tediosamente l’inutilità della pittura. Questo per quel che concerne i “grandi”… seguito da molto altro dove i “giovani” sono inutilmente intenti a rimaneggiare ogni detrito linguistico nel vano tentativo di ridare vita alla salma. Sul tutto, sovrastano un numero incredibile di tassidermizzati piccioni di Maurizio Cattelan, il Paolo Rossi dell’arte, metaforicamente scagazzanti su tutto e tutti, opere e pubblico, evidentemente felici di farsi schizzare da cotanta defecatio.

Proseguendo la visita all’Arsenale non va molto meglio: estenuanti chilometri intervallati da soste chiacchierecce dove ognuno, noi compresi, dice la sua ad aumentare la con-fusione finché sul finire, tre ILLUMInazioni riscattano il fin qui inutile sforzo: James Turrell, Urs Fischer e Christian Marclay. Il primo -lavorando sulla luce è uno dei pochi artisti invitati la cui opera aderisce al tema dell’esposizione- ha realizzato un’installazione in cui la luce, giocata su un timbro freddo astratto-mistico di matrice culturale protestante, coinvolge lo spettatore in un esperienza totalizzante. Il secondo propone una copia in cera del Ratto delle Sabine di Gianbologna, una statua natural size che ritrae l’amico Rudolf Stingel ed una sedia del suo studio. Tutte le opere in cera, accese all’apertura dell’esposizione, si scioglieranno completamente, in perfetto sincrono, alla chiusura della mostra. Uno struggente e romantico contemporaneo memento mori . Il terzo, premio Leone d’oro, con The Clock, un vero e proprio film, una sofisticata operazione in tempo reale 24 ore su 24, dove il momento della finzione coincide con quello dello spettatore, è realizzato mixando sapientemente spezzoni di film i cui protagonisti interagiscono con il tempo, guardando l’ora, per esempio, o in un’inquadratura in cui appare l’orologio. Bene, un’ultima annotazione: un tempo, ahi!, laudator temporis acti , gli artisti invitati realizzavano opere, come si dice ora, site-specific . Ora la maggior parte dei lavori esposti sono courtesy di importanti gallerie ed in non pochi casi sono pure “vecchie” di qualche anno. Il tutto ha uno spiacevole retrogusto di publi-redazionale, dando la sensazione di una super art fair con il plusvalore culturale del prestigioso brand Biennale. Nessun moralistico pistolotto anti-mercato, però, visto che il marchio è nostro, potremmo mica giocare anche noi a palla nei nostri giardinetti…?

Oltretutto la laguna diventa nei giorni del vermissage terreno di pascolo per super cool intenational fancazzisti che all’ora del tramonto si trasformano in Lica assetati di vodka, birra e quant’ altro alla frenetica ricerca di sballo, eguali in questo, contesto lussuoso a parte, ai loro coetanei delle plebi urbane da rave-party .

Ancora un poco di pazienza, cari e numerosi, spero, lettori per un piccolo giro ai giardini, nei padiglioni nazionali che ci limitiamo, per non tediarmi-vi, a segnalarvi: Grecia (Diohandi), Austria (Markus Schinwald), Francia (Christian Boltanski), Israele (Sigalit Landau).

Un piccolo giro per gli eventi collaterali e il gioco è fatto. A Ca’ Pesaro ampia mostra di Pier Paolo Calzolari le cui serpentine refrigeranti fanno a gara con gli impianti di condizionamento dello splendido museo, le cui magnifiche sale, dove peraltro troneggia uno straordinario Pensatore di Auguste Rodin, non sono sufficienti, a nostro avviso, a conferire spessore al lavoro dell’artista.

Alla Fondazione Prada, new entry in laguna, a Ca’ Corner della Regina, suggestivo palazzo sul canal grande, i Bertelli presentano la loro collezione costituita di opere importanti e ben scelte, da Piero Manzoni a Lucio Fontana e Alberto Burri, Enrico Castellani, fino a Jeff Koons, Anish Kapoor, lo sgonfiato Damien Hirst fino alla più giovane Nathalie Djuberg. Accanto alle opere è presentato anche il piano di recupero e restauro dell’edificio, a ribadire le ambizioni della griffecirca la  location veneta divenuta ormai indispensabile per i grandi brand della moda che si contendono il mercato anche a colpi d’artisti.

Last but not least il padiglione italiano. Che dire, già abbiamo speso parole alle quali aggiungiamo una breve nota: apprezziamo sul serio la spericolata difesa che Luca Beatrice fa sulle colonne de Il Giornale dell’avventura sgarbiana, l’amicizia e l’appartenenza li consideriamo valori, ma da qui a sostenere che gli artisti invitati erano felici la strada è lunga. Quelli famosi, Pistoletto, Kounellis, Paladino, hanno fatto, come si dice, buon viso a cattiva sorte e connonchalanteaplomb hanno mascherato l’affronto di esser sbattuti alla cazzo, in un contesto che ha oltretutto rivelato l’intrinseca debolezza dei lavori fuori dai consueti sacrali cubi bianchi. La bandiera di stracci del maestro biellese era per l’appunto simply uno straccio poco riguardoso nei confronti della patria, il bianco lenzuolo inchiodato su lastre di ferro ha palesato tutta la ordinaria foga iconoclasta del maestro italo-greco, impeto che è andato spegnendosi con l’andar degli anni evolvendo in un più moderato manierismo costituito di combine paintingmolto formali, infine l’opera di Paladino certo non era delle più felici, potendo vantare l’artista ben altre qualità, ma quel lavoro schiaffato lì certo non è quel che si dice un bel servizio. Per quel che concerne quelli della terra di mezzo, vale a dire gli artisti con un passato di tutto rispetto o di grande prestigio ma dimenticati, ebbene questi erano o atapiratissimi o schiumanti rabbia. Gli unici, questi sì felici, erano i turisti dell’arte circondati da fidanzate/i amici e sostenitori (non mancano mai) radiosi del giro in serie A, si fa per dire. Che quel po’ po’ di sarabanda (copyright Avvocato Agnelli) sia indecente mi par fuori di dubbio, che quella Via Margutta contro Piazza del Popolo (copy dagospia) ci abbia universalmente sputtanati non è un’opinione. Poi si può pure sostenere che noi, inteso come italiani, siamo quella roba lì, e un poco di vero c’è, l’atmosfera felliniana da Prova d’orchestra o da Città delle donne, con l’esibizione della porno star appollaiata sulla sedia di Gaetano Pesce restituivano quella sensazione, accentuata dalla presenza numerosa dei sensali delle televendite così cari al Vate. Un’atmosfera grassa, da zolle di terra arate, da calura di piana ferrarese… non siamo solo quella roba lì, esistono anche Tiziano e Palladio, visto che di Bello si parlava, che ci hanno tramandato una cultura, un gusto ed un aplomb di ben altro spessore.

Un’ultima osservazione poi chiudo: visto che siamo in Italia, sarebbe così scortese chiedere a tutti i partecipanti, padiglioni nazionali, eventi collaterali, di pubblicare cartelle stampa anche in italiano e ultimo sforzo sottotitolare i video? Così tanto per rispetto della nostra bella lingua.

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