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Poeta dell’altrove. Osvaldo Licini alla Guggenheim di Venezia, tra lirico e onirico

Osvaldo Licini - Autoritratto, 1913 Collezione Lorenzo Licini © Osvaldo Licini, by SIAE 2018 Osvaldo Licini - Autoritratto, 1913 Collezione Lorenzo Licini © Osvaldo Licini, by SIAE 2018
Osvaldo Licini - Autoritratto, 1913 Collezione Lorenzo Licini © Osvaldo Licini, by SIAE 2018
Osvaldo Licini – Autoritratto, 1913 Collezione Lorenzo Licini © Osvaldo Licini, by SIAE 2018

Nel sessantesimo della scomparsa, un’ampia antologica celebra Osvaldo Licini, pittore, poeta e scrittore dal caleidoscopico talento. Alla Peggy Guggenheim Collection, fino al 14 gennaio 2019. www.guggenheim-venice.it

Venezia. «Chi cerca suole mai trovar certezza». Un aforisma dal sapore rinascimentale creato dallo stesso Osvaldo Licini (1894-1958), riassume lo spirito della sua opera così come il suo stesso temperamento. Basti dire che, ancora studente d’Accademia a Bologna, ma insofferente a quei metodi didattici ancora ottocenteschi, nel marzo del 1914 inaugurò assieme ai compagni Giorgio Morandi e Severo Pozzati, una collettiva in una sala dell’Hotel Baglioni che segnò una tappa importante nel rinnovamento del clima artistico cittadino. Quel cenacolo di “ribelli” guardava con entusiasmo al Futurismo non tanto da un punto di vista estetico, quanto di superamento delle convenzioni, di rottura con il passato, che in quei mesi a ridosso della Grande Guerra si avvertiva come un’urgenza improrogabile. Tutta l’Europa ne era intrisa, e quella che a posteriori sarebbe apparsa follia distruttrice, sul momento venne vista come l’era del progresso e della purificazione civile. Non necessariamente d’accordo con questo clima nella sua interezza, Licini era però favorevole a rinnovare la pittura e riuscì a farlo con uno stile personalissimo, in cui una vena di garbata follia intride queste affascinanti pitture che vanno dalla figurazione all’astrattismo, dal pre-cubismo di Cézanne all’Archipittura. L’Autoritratto del 1913, esposto a Bologna al Baglioni, svela i primi tratti di uno stile unico: l’artista muove da un espressionismo esasperato che trova il suo culmine nello sguardo intenso, al limite dell’arrabbiato, che lasciano intuire un carattere irrequieto e indipendente, affatto propenso al conformismo borghese. In questo, il Futurismo fu per lui un’ispirazione, in particolare seguiva il Soffici di Lacerba, che ebbe modo di leggere a Firenze, dove terminò gli studi accademici. Firenze era all’epoca una delle città culturalmente più vivaci d’Italia, con le accese polemiche del gruppo delle Giubbe Rosse contro il conservatorismo dell’arte italiana ufficiale. Soffici fu figura importante in questo dibattito, perché reduce da Parigi, portò in Italia la conoscenza della pittura impressionista, ma soprattutto quella di Paul Cézanne (fondamentale per i Cubisti), Henry Rousseau, oltre agli stessi Cubisti, Picasso e Braque su tutti.

Osvaldo Licini - Paesaggio fantastico (il capro), 1927 Collezione privata Ph. Sergio Martucci © Osvaldo Licini, by SIAE 2018
Osvaldo Licini – Paesaggio fantastico (il capro), 1927 Collezione privata Ph. Sergio Martucci © Osvaldo Licini, by SIAE 2018

Il periodo toscano fu determinante per Licini, anche se non poté approfittarne subito. L’apertura delle ostilità con l’Austria-Ungheria lo vide impegnato al fronte, e fu soltanto nel 1917, approfittando di una licenza, che poté recarsi a Parigi, per conoscere di persona quelle esperienze artistiche che gli erano arrivate attraverso Soffici. Frutto eccelso di quel periodo, le Ballerine, dipinte in quello stesso anno, picassiane nella forma scultorea (mediata attraverso Cézanne), ma più leggere di quelle, sospese su uno sfondo azzurro e in delicato equilibrio fra linea, forma e volume.

A Parigi tornò anche subito dopo la guerra, frequentando Montparnasse e stringendo amicizia in particolare con Amedeo Modigliani; a lui, così come a Toulouse Lautrec, Licini si ispirò per i suoi nudi femminili, che possiedono grazia muliebre assieme a una certa tensione apportata dalla linea né completamente morbida né completamente rigida, e dai rilievi prodotti dalla pennellata pastosa. Artista sofisticato, che suggerisce la forma nascondendola, la sua pittura si astrae dal naturalismo, assume carattere simbolico con inflessioni oniriche, e possiede un andamento narrativo e musicale che stempera le angosce ad esempio, di Picasso o Derain. Licini spazia fra le varie tendenze, e ne trova la sintesi in una pittura lunare, appassionata, da cui emerge la dimensione esistenziale dell’errare, nell’arte come nella vita. Dal punto di vista pittorico, la mostra ben documenta questa peripateticità, guidando il pubblico attraverso le varie fasi della carriera dell’artista.

Osvaldo Licini - Foto Bernhard Degenhart
Osvaldo Licini – Foto Bernhard Degenhart

Licini fu un artista di respiro europeo, che seguì con interesse la nascita delle varie avanguardie, sia in campo pittorico che letterario; a Parigi infatti conobbe la poesia di Guillaume Apollinaire e Paul Valéry, e con quest’ultimo in particolare ebbe affinità, condividendo il continuo, tormentoso ripensare l’opera, scritta o dipinta, la ricerca del dettaglio e l’equilibrio della sintesi. Al pari di Valéry con i suoi scritti, Licini torna sull’opera, vi medita in profondità, ne fa occasione di ricerca e sollievo dell’anima, in un periodo, fra gli anni Venti e Trenta, foriero di nuove sciagure per l’Europa. Dopo la prima esperienza parigina che lo vede curioso delle avanguardie, nel dopoguerra non fu estraneo al “ritorno all’ordine” predicato da Soffici, ma non seguì la strada del richiamo ai Primitivi senesi, bensì continuò su quella della sintesi fra più istanze. La sua “scoperta” del paesaggio ha radici personali: marchigiano, ebbe sempre presente la bellezza della sua terra (dove si stabilì tornando da Parigi nei primi anni Venti), e sempre i suoi panorami conservano una radice di realtà, sulla quale interveniva con semplificazioni di segno e astrazioni della forma. I suoi paesaggi, silenziosi, contemplativi, dove senza requie ogni notte splende la luna leopardiana mai paga di “riandare i sempiterni calli”, riecheggiano la condizione dell’uomo, sono la quinta di pensieri e parole che si traducono in figure e colori e ne possiedono la medesima forza.

A conferma dell’irrequietezza dell’artista, alla metà degli anni Trenta lasciò la pittura di paesaggio per dedicarsi interamente all’astrazione, all’interno del gruppo milanese nato nell’ambito della Galleria del Milione, in cui gravitavano anche Lucio Fontana e Fausto Melotti. Un astrattismo di difficile etichettatura, dall’andamento musicale, con richiami simbolici e onirici, lontani dalle rigidità, ad esempio, di De Stijl o del Raggismo, e con effetti di colore che ricordano le sculture in cemento di Lucio Fontana. Qui Licini si apre a una dimensione “aerea”, dove la linea geometrica si spezza nell’arabesco, sottintendendo una sottile critica alla società industriale che sempre più opprime e sostituisce quella rurale, in Italia come nel resto d’Europa. Una fase che troverà rapido sviluppo nell’Archipittura, dove forme e colori si staccano da riferimenti lirici o onirici, e si mostrano in quanto se stessi; un’anticipazione concettuale della Pittura Analitica, che rappresenta, negli anni Trenta in Italia, una velata rottura con l’arte del regime fascista.

Con la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, la pittura di Licini si riavvicina a tematiche esistenziali, e cerca nell’arte un mezzo per superare quei limiti umani (morali, etici, civili) che tanto dolore causano all’individuo. Ispirato dalla “regione delle Madri” teorizzata dal filosofo Franco Ciliberti, Licini realizza opere che elevano lo spirito, che guardano a personaggi leggendari e simboli come l’olandese Volante dell’omonima leggenda, condannato a navigare in eterno per aver varcato il Capo di Buona Speranza. Tra figura e astrazione, Licini vuole spingersi oltre, lasciarsi alle spalle la violenza della guerra e ritornare alle regione dove suono e parola si sublimano nell’armonia cosmica, preludio a quella che sarà la serie delle Amalasunte, nei tardi anni Quaranta. In queste pitture interviene il richiamo a Lautréamont e si suoi surrealistici Canti di Maldoror; l’Amalasunta di Licini è figura consolatrice, la Madre Terra di atavica, primordiale memoria, quella a cui guardano tutti i poeti, che nella luna ne leggono il volto, sospeso fra sacro e profano. Erotismo, poesia, sogno, speranza, si fondono in queste che sono una sorta di testamento pittorico di Licini, la sintesi delle sue aspirazioni artistiche e filosofiche: una pittura fatta dall’incontro di molteplici stili, un’arte libera nella forma e nella sostanza, volta a indagare il bisogno dell’umanità di andare oltre in particolare in tempi difficili come quelli fra le due guerre e della guerra stessa. Malapartianamente, Licini seppe essere “libero in una prigione”.

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