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Fotografia Europea 2018. La Rivoluzione invade Reggio Emilia. 3 mostre assolutamente da non perdere

Luca Campigotto, Hong Kong (2016) Luca Campigotto, Hong Kong (2016)
Luca Campigotto, Hong Kong (2016)
Luca Campigotto, Hong Kong (2016)

Dal 20 aprile al 17 giugno torna l’appuntamento con FOTOGRAFIA EUROPEA a Reggio Emilia. Il festival raggiunge la sua XIII edizione e invade la città con numerose mostre, conferenze e attività collaterali. Qui tre suggerimenti sulle mostre da non perdere.

FOTOGRAFIA EUROPEA è ormai un appuntamento consolidato e atteso da tutti gli appassionati di fotografia. Dal 20 aprile al 17 giugno l’attenzione dell’obbiettivo si concentra su Reggio Emilia e la città ricambia proponendo una serie di mostre dai linguaggi e contenuti diversi, ma tutte legate dal filo tematico di questa edizione: la rivoluzione.

Rivoluzione nella fotografia e della fotografia. Due binari paralleli che non hanno mancato di incontrarsi nel corso del tempo, ma che autonomamente possono scorrere separati. Nella fotografia le rivoluzioni documentate dal mezzo fotografico, in grado di immortalare per sempre momenti critici e sfuggevoli. Si concentra sui soggetti ponendoli al centro di una narrazione in grado di prescindere dalla parola, esaltando l’apparente oggettività di uno strumento in grado di riprodurre fedelmente il dato reale. Non solo il travaglio di un paese come l’Iran (Genesis of a Latent Vision: a Window onto Contemporary Art Photography in Iran, Chiostri di San Domenico), che da un secolo e mezzo vive ogni 10 anni circa una ribellione radicale, ma anche uno sconvolgimento culturale, politico e sociale, come la rivoluzione sessuale degli anni 60/70 (SEX & REVOLUTION! Immaginario, utopia, liberazione, Palazzo Magnani). Dall’altra parte (della fotografia) assistiamo in filigrana ad una rivoluzione-evoluzione del mezzo e del linguaggio fotografico: dal bianco e nero al colore, dal fascino documentaristico a quello artistico, dall’immagine al video, dalle pagine di una rivista ai pixel di un telefonino. La fotografia è al centro di un movimento che viene da lontano e che lontano guarda, proprio come FOTOGRAFIA EUROPEA. Nel mezzo di questo dedalo di suggestioni ed eventi, il cui respiro sembra superare i limiti continentali, tre mostre sembrano emergere sulle altre.

Ali Nadjian, Ramyar Manoichehrzadeh, Demo 1978 (2018)
Ali Nadjian, Ramyar Manoichehrzadeh, Demo 1978 (2018)

Genesis of a Latent Vision: a Window onto Contemporary Art Photography in Iran, Chiostri di San Domenico

Otto fotografi (Gohae Dashti, Shadi Ghadirian, Mohammad Ghazali, Ghazaleh Hedayat, Mehran Mohajer, Ali Nadjian, Ramyar Manoichehrzadeh, Newsha Tavakolian) raccontano attraverso i propri scatti l’evoluzione del linguaggio fotografico da mezzo documentaristico a medium artistico. Se la fotografia giunge in Iran circa 170 anni fa, la sua connotazione artistica emerge solo negli anni 60, soprattutto grazie alle sperimentazioni di Ahmad Aali, a cui è dedicata una delle tre esposizioni parallele a Genesis. Passato, presente e futuro accompagno la mostra centrale lungo le origini e i nuovi sviluppi del genere. L’inizio del 900 con la prima rivoluzione iraniana, l’immigrazione dalle campagne alle città, la rivoluzione islamica del ’79 che ha messo fine ad una monarchia lunga 2500 anni sono alcune delle tappe principali che evidenziano la storia di un paese in continuo tumulto e che prontamente sono state riprese dai fotografi che con approccio cronachistico ci riportano a momenti tanto lontani quanto attuali. E tra queste la svolta concettuale degli anni 50, con una fotografia che piano piano esce dal confine meramente giornalistico e si appropria della scena artistica, fino a diventare disciplina accademica nel 1983 (anno dello scoppio della guerra con l’Iraq). Merito più di slanci sperimentali che di un percorso lineare, la fotografia non applicata vede oggi in Iran artisti di grande livello. Come Gohar Dashti che con la sua macchina e il suo sguardo riesce a comporre delle poesie visive dal fascino evocativo commovente. Senza ricorrere ad alcuna post-produzione i suoi paesaggi desolati e misteriosi sono frammenti lirici che trasmettono una strana commistione di tranquillità ed inquietudine. Ma è soprattutto la nuova leva di artisti in mostra, molti dei quali ancora studenti, che fa della fotografia un canale completamente dedicato alla ricerca artistica. Hossein Davoudi con Una seconda serie (2016-2017) raccoglie decine e decine di attimi fotografando sempre lo stesso spicchio di strada, per poi affiancarli in un grande affresco che racconta, sommando i vari istanti, un secondo di vita sulla terra. I personaggi che lo attraversano diventano a loro insaputa protagonisti di questo momento moltiplicato, che riverbera a lungo in un puzzle eterno che assume le sembianze di un’inaspettata piazza cubista. Lavoro per tratti simile e sicuramente altrettanto interessante è quello di Keyvan Nikbakht, che indaga al pari di Davoudi l’aspetto unico e molteplice dell’attimo. Come fosse un doppio specchio, l’artista accosta sempre due foto scattate contemporaneamente, ma con l’obiettivo rivolto verso direzioni opposte. Nasce così una doppia prospettiva (di cui una risulta essere spesso un autoscatto) in grado di sdoppiare un momento che senza il mezzo fotografico ci costringerebbe a concedersi solo una delle due visioni.

Gohar Dashti, Iran, Untitled 2013
Gohar Dashti, Iran, Untitled 2013

Joel Meyerowitz, Transitions, Palazzo da Mosto

Tra i tre progetti espositivo che Palazzo da Mosto propone in questa edizione di FOTOGRAFIA EUROPEA spicca quello dedicato a Joel Meyerowitz. Curata da Francesco Zanot la mostra raccoglie 120 scatti che testimoniano i principali passaggi dei primi e fondamentali 20 anni di attività del fotografo americano. Al centro la rivoluzione che Meyerowitz ha apportato al mondo della fotografia, dall’introduzione del colore alla definizione del genere della street photography. È per questo che la mostra espone anche opere in bianco e nero, così da evidenziare esplicitamente la crescita e lo sviluppo dell’artista. Malaga, Spain 1966 e Leaving Naples, Italy, 1957 mettono in luce, anche se prive di colore, alcuni tratti caratteristici dello stile di Meyerowitz. Soprattutto appare nitida la compresenza di due aspetti che nonostante le apparenze sono più complementari di quanto ci si aspetti: la composizione formale e la cattura dell’attimo. Su questo binomio il fotografo ha costruito il proprio stile e ispirato tanti altri artisti. In Paris, France, 1967 la caduta di un passante è colta in un preciso istante incorniciato da una scena dai tratti cinematografici. Un ciclista si ferma e si volta ad osservare, un lavoratore scavalca indifferente l’uomo a terra, alcuni passanti di voltano incuriositi e dalla macchine al tram, la città è immobile per un secondo che ora è eternità. La città è ovviamente il soggetto principali di questi scatti, che sia colta nella solitudine di un paesaggio  urbano o come teatro delle azioni improvvise e quotidianamente meravigliose della folla, sempre inconsciamente fonte di buone immagini. Attraverso punti di vista differenti ed inaspettati, Meyerowitz ci mostra come niente è banale e che anche la ripetitività o l’apparente semplicità tramettono emozioni a chi ha la pazienza di coglierle. In Dairyland, Provincetown, Massachussetts, 1976, il fotografo costruisce, questa volta anche grazie all’utilizzo dei colori, una composizione quasi pittorica per bilanciamento cromatico ma ad un primo sguardo svuotata di ogni sentimento. Ma gli occhi rimangono fissi, rapiti da un equilibrio formale che invita ad un’osservazione profonda, dalla quale piano piano emergono suggestioni quasi trascendentali. Quelle di Meyerowitz sono immagini in grado di rilassarci e ricondurci attraverso strade sconosciute ai luoghi che custodiamo nel nostro intimo, che grazie alle sue fotografie, misteriosi passaggi segreti, emergono sullo sfondo sotto forma di nostalgia, sogni, speranze.

 Joel Meyerowitz, Paris, France, 1967
Joel Meyerowitz, Paris, France, 1967
Joel Meyerowitz, Dairyland, Provincetown, Massachusetts, 1977
Joel Meyerowitz, Dairyland, Provincetown, Massachusetts, 1977

Luca Campigotto, Iconic China, La Sinagoga

Nell’affascinante sede espositiva della Sinagoga, vittima di un bombardamento e riaperta dopo il restauro ne 2008, valore storico e artistico si uniscono in un connubio audace ma perfettamente riuscito. Nell’ambiente asciutto e silenzioso del luogo di culto ebraico, la riverenza dovuto si unisce allo stupore suscitato dalle immagine futuriste di Luca Campigotto. La mostra racconta il viaggio in Cina del fotografo veneziano, tra le splendide vedute paesaggistiche di un passato dimenticato ai bagliori al neon delle metropoli odierne. È proprio la luce e il colore a costruire queste visioni travolgenti: led, neon, vapori di sodio, fluorescente e tungsteno, mischiati con la luce solare. Il risultato sono una serie di fotografie che ritraggono una dimensione quasi fantascientifica della Cina. Tra grattacieli altissimi e palazzi fittissimi si fa sottile il confine tra utopia e distopia, la realtà diventa aliena tra i bagliori cromo color pesca, malva e giallo. Le tonalità ora elettriche ora spettrali costruiscono un’atmosfera spettacolare e suggestiva, soprattutto quando sulla sfondo la freddezza della Sinagoga ci ricorda prepotentemente l’incredibile diversità e le inaspettate corrispondenze che questo mondo ci offre.

Luca Campigotto, Hong Kong (2016)
Luca Campigotto, Hong Kong (2016)

Il sito ufficiale del festival per ulteriori informazioni.

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