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Ritornare in camera oscura. Traces. Intervista a Claudio Santambrogio

Claudio Santambrogio

Claudio Santambrogio

Fino al 25 novembre alla Galleria RBcontemporary è in corso la mostra TRACES, fotografie di Claudio Santambrogio, che opera ancora nella camera oscura con pazienza e dedizione. Un’esposizione che è un omaggio al processo, alla lentezza e alla storia passata. E’ un ritorno alle radici per permetterci, attraverso la pellicola e alla stampa tradizionale di ritrovare nuovi linguaggi contemporanei.

Le fotografie esposte in occasione della mostra da RBContemporary colpiscono per la loro enigmaticità, comunicano un senso di mistero che affascina e turba allo stesso tempo. Ritraggono luoghi reali o sono astrazioni di un mondo primordiale e/o futurista?

Nella mostra Traces sono presentati due progetti, North e Landscapes. Si tratta di paesaggi in entrambi i casi, ma mentre North ritrae paesaggi reali, quelli dell’arcipelago artico delle Svalbard, nella serie Landscapes si affrontano astrazioni che nascono in camera oscura, è facile leggerli come paesaggi:non sono meno reali, ma non sono luoghi.

Claudio Santambrogio

Perché nella serie North è presente un elemento in collage di carta cucita?

La presenza umana nell’arcipelago artico delle Svalbard è stata costante dalla loro scoperta nel 1596 – è stato uno dei teatri più attivi e cruenti della caccia alle balene, è stato l’ultimo avamposto per la conquista del polo nord, è stata una fonte di carbone… I motivi della presenza umana sono molteplici, ma tutti hanno sempre una cosa in comune: la presa di coscienza dell’infinitesima piccolezza dell’uomo nei confronti della natura, e con tanta presenza umana, in un ambiente così ostile, vi sono state anche tante morti. Il permafrost ha la caratteristica di conservare meglio di altri ambienti –si è trovata una delle più grandi collezioni d’indumenti del ceto basso, di cacciatori, marinai, esploratori, seppelliti con i loro vestiti. In Europa i vestiti del XVII secolo che si sono conservati sono per la grande maggioranza indumenti degli alti ceti sociali. E qui invece si trovano maglioni e berretti, calze, pantaloni e scarpe, tutto in lana. La lana è intessuta in questi paesaggi come un filo continuo che collega il tutto – è così, letteralmente, anche nei miei lavori.I frammenti cuciti hanno la stessa funzione di un accento musicale.  A volte in sincope… attirano l’attenzione su un dettaglio, oppure creano una piccola incrinatura della linearità visiva.

Claudio Santambrogio

Mentre le fotografie della serie Landscapes sono un omaggio al processo della fotografia analogica. Ci racconti come nasce questa scelta?

Nel nostro mondo che si sta digitalizzando e smaterializzando sempre di più, vi è una necessità crescente di avere oggetti reali ai quali potersi appigliare. Per me una fotografia è esattamente questo: un oggetto. Lavoro in camera oscura sviluppando e stampando i lavori da solo. Proprio questa magia del lavoro in camera oscura è la parte più preziosa, che in un mondo digitale stiamo perdendo. La serie Landscapes porta in primo piano giusto questo– si potrebbe dire che rappresenta tutto ciò che rimane, una volta che si rimuove dalla fotografia tutto quello che la fotografia digitale può fare: ovvero la carta, la chimica, la luce, e quello che succede quando questi tre elementi sono combinati.

Quale è il tuo modo di creare, parti da un progetto o una tematica prestabilita per arrivare alla realizzazione di un lavoro?

No, i miei lavori nascono da una ricerca costante. Una ricerca che nasce da uno studio della storia della fotografia e dalla storia delle tecniche fotografiche. È importante conoscere i procedimenti fotografici storici per capire meglio quanto è stato fatto – ma per un lavoro creativo è altrettanto importante trascendere questa conoscenza e avventurarsi oltre. Il lavoro creativo è una ricerca continua – deve succedere senza pregiudizi, e senza una meta prestabilita. Una tale meta può fungere solo da punto di riferimento, e costantemente deve essere riaggiustata allo sviluppo del percorso creativo che s’intraprende. L’astrazione sopraggiunge dopo, riunisce e organizza gli esperimenti in una serie ben definita, dalla quale poi si procede in modo più guidato.

Claudio Santambrogio

Hai affermato che la fotografia è più che un’immagine, spiegaci?

Come già detto, viviamo in un mondo sempre più digitale, sempre più virtuale, sempre meno “reale”. Viviamo in un flusso costante d’immagini – basti pensare al fiume d’immagini che ogni giorno scorre davanti ai nostri occhi: alla televisione, su facebook, su flickr, su whatsapp… quasi tutti oggi posseggono macchine fotografiche, sia anche solo sui propri cellulari. “Siamo tutti fotografi”, al punto che oggigiorno sono quasi più le immagini prese da non professionisti che illustrano le news… Ma torniamo alla radice della fotografia: la parola, nata negli anni ’30 del XIX secolo, letteralmente significa “scritto con la luce”. Una fotografia è sempre stata un oggetto “scritto con la luce”, un oggetto su cui la luce ha lasciato la sua traccia. Una macchina fotografica digitale è un apparecchio per la registrazione d’immagini: la luce è trasformata in dati digitali, e da quelli riconvertita in segnali visivi. La continuità del “gesto della luce” è interrotta. Il foglio di carta di una (vera) fotografia ha visto quella luce che l’ha creato. Quella fotografia scattata da William Henry Fox Talbot che rappresenta la finestra del suo studio, probabilmente la più antica fotografia prodotta in una macchina fotografica, è stata vis-a-vis con quella finestra – quel foglio di carta è stato fisicamente presente in quella stanza. È questa “continuità di luce” (e, oserei dire, la conseguente presenza di aura) che caratterizza quell’oggetto che chiamiamo fotografia – e che lo distingue da una semplice immagine che possiamo vedere su uno schermo di un computer o di uno smartphone. E in questo mondo progressivamente più virtuale e smaterializzato vi è un crescente bisogno di oggetti.

Claudio Santambrogio

Sei anche flautista specializzato in strumenti d’epoca e hai studiato al conservatorio – un’attività primaria o una passione alternativa alla fotografia?

L’attività di musicista, specializzato in strumenti d’epoca, viene (cronologicamente) prima di quella fotografica, e penso che segni profondamente anche il mio lavoro di artista: sia dal punto di vista dell’interesse storico (e anche la consapevolezza del fatto che dopo una profonda conoscenza storica sia necessario andare oltre per riuscire a fare un lavoro creativo è comune alle due attività), sia dal punto di vista propriamente musicale. Essere musicista m’insegna a percepire il mondo attorno a me non solo, e non primariamente, attraverso canali visivi, e amplia così il mio orizzonte artistico. È proprio l’essere musicista che mi spinge verso l’astrazione – non sono “fotografo” in senso tradizionale, ma solo nel senso di “colui che scrive con la luce”. L’attività di musicista, dicevo, viene prima di quella fotografica – ma ad un certo punto ho sentito l’attività musicale troppo “immateriale”, ho sentito di voler lasciare un segno concreto. Da qui nasce la mia ricerca di oggetti, reali e tangibili; la necessità di creare qualcosa che esista nel mondo di oggetti che ci circonda, e che sia segnata proprio da questo mondo che ci circonda. Da qui l’uso di procedimenti fotografici nella mia ricerca visiva e tangibile, dapprima come riflesso del reale (fotografia intesa come “riproduzione del reale”), poi sempre più come reazione (fotosensibile) al mondo reale – ovvero fotografia come “scrittura con la luce”.

E poi, non a caso, Roland Barthes disse: “La fotografia deve essere silenziosa: non è una forma di ‘discrezione’, ma di musica.” Sono, oggi, attivo sia come musicista, sia come artista – ed entrambi sono profondamente intessuti nella mia vita.

Informazioni utili

RITORNARE IN CAMERA OSCURA

Alla Galleria RB Contemporary  fotografie di Claudio Santambrogio – TRACES

Via G.B. Morgagni 31b

20121 MILANO

info@rbfineart.it

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