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Sfilata Chanel a Cuba. Uno sguardo sul futuro… capitalista?

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Vent’anni fa Chanel cominciò a proteggere alcune eccellenze parigine della moda: Lesage specializzata nei ricami, Desrues nei bottoni, Lemarié nelle piume, Michel nei cappelli e Massaro nelle scarpe. Queste maison furono definite da Kark Lagerfeld, lo stilista-totem di Chanel, “laboratori di pura creatività”. Il peso finanziario della doppia C aveva salvato un concetto di bello che andava oltre il privilegio. La sfilata all’Avana parte dalle stesse premesse, ma ha un esito diverso. Martedì al Paseo del Prado, modelle straniere e locali hanno inscenato uno spettacolo che può essere letto in due modi: guardate che bei colori e che accenti tropicali ci ispirate oppure ecco cosa vi porterà un futuro capitalista.

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Non oso nemmeno pensare come sarebbe finita se al posto di Chanel, con poche eccezioni, sicuramente un paio italiane, ci fosse stata un’altra casa. Perché un conto è aggiungere bellezza all’esotismo di Cuba, che ha fatto miracoli, senza risorse ma con la trepidazione di chi ha preservato la cultura, un esempio per tutti il Gran Teatro de la Habana Alicia Alonso. E un altro è pompare dollari e business come si fa con un oleodotto.

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Le immagini dal Paseo del Prado sono sgargianti, la “linea crociera” è sontuosa nei colori e calda nelle intenzioni, sembra di rivivere un periodo nefasto ma indubbiamente glamour come la Cuba pre-rivoluzionaria. Anche i baschi del Che, impreziositi da quell’artigianalità così parigina, sono un abbraccio fra i vecchi rivoluzionari e le faccette gradevoli, ben truccate delle modelle. Ma la moda si prende una bella responsabilità. E fin qui è andata ancora bene. Cosa succederà invece quando i turisti, che finalmente cominceranno a scendere da navi americane, cercheranno a Cuba lo shopping di Monte Carlo e Rodeo Drive?

Uno dei look che ha colpito di più sul Paseo è quello di un modello in Panama bianco, cravatta nera, jeans, mocassini bianchi con profili neri e un trench leggerissimo con auto anni ’50 stampate in rosso, blu, giallo. Le stesse “convertibles” che scarrozzano i turisti, martedì i 700 ospiti di Chanel, per l’Avana e dintorni. Un altro look ammirato, ma qui parliamo di gusto europeo non di quello che trovano bello di cubani, è stato quello di una modella in Fedora e abito floreale su tinte chiare e vivaci.

D’altra parte, se uno chiama “crociera” una collezione poi si aspetta di vederci moglie o fidanzata infilate dentro in giro per il mondo. E anche questo va bene. Ma Cuba è tutt’altra cosa. Benicio Del Toro, per dirne una, sarà Josè Miguel Battle sr, capo della mafia cubana ai tempi del presidente Fulgencio Batista, in “The Corporation”, tratto dal libro omonimo di William Morrow atteso l’anno prossimo. Il titolo completo è di per sé ammonitorio: “An Epic Story of the Cuban American Underworld”. Destino vuole che Del Toro, portoricano, abbia prodotto, diretto e interpretato ben due film su Che Guevara. E che sia uno degli attori più impegnati, più in generale, sul raccontare ipocrisie e guerre sporche nell’eterno confronto fra democrazie, criminalità e narcotraffico.

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Quindi va benissimo Chanel a Cuba, un anno per convincere il regime castrista, anche perché l’isola, non solo l’Avana, è uno scenario unico nei Caraibi. Ma vale per questi eventi quello che colpisce visitando Finca La Vigia, casa di Ernest Hemingway a San Francisco de Paula, quindici chilometri dalla capitale. C’è una piscina, ben disposta e per nulla lussuosa, ma lì hanno tenuto compagnia al romanziere cantanti, attrici e politici. Fa un certo effetto immaginare Ava Gardner che nuota o prende il sole. Ma erano altri tempi. Ora i cubani smaniano per non sentirsi più cittadini del mondo di serie B. E per riuscirci non devono correre il rischio di tornare a essere un set, una cornice, uno sfondo.

 

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2 Commenti

  • Cara Cristiana, le rivoluzioni sono finite più o meno tutte male. Anche quelle per liberare l’Africa dal colonialismo. Per fare un esempio. Ma essere rivoluzionari non significa perdere la convinzione che un giorno ci sarà più giustizia e più prospettive di crescere. Chanel è stata rivoluzionaria almeno quanto Castro. Facciamo in modo che chi ci sta vicino lo capisca, anche andando a Cuba, anche facendo shopping. Non è impossibile…

  • Questo è un articolo! Scritto impeccabilmente, con quella sottile linea “rossa” che si intuisce dentro al resoconto della sfilata e quella leggerezza che maschera serietà (e, chissà: apprensione?) per raccontare la fine pericolosissima di un’era.
    La frase “Anche i baschi del Che, impreziositi da quell’artigianalità così parigina, sono un abbraccio fra i vecchi rivoluzionari e le faccette gradevoli, ben truccate delle modelle.” vale un Perù.
    E ci fa piangere disperatamente perché se si deve difendere l’haute a causa dell’indotto prezioso che dispone, si deve necessariamente senza scampo senza remore stigmatizzare la triste epopea di un ideale rivoluzionario che ci teneva ancora con il fiato sospeso, con tutte le difficoltà e le ingiustizie che fino a ieri lo sottendevano e lo sostenevano.
    Che peccato: io speravo un giorno di non vedere quello che sarà. Dopo le prime gozzoviglie dei “ricchi” e degli engagées (da Obama in poi) arriveranno le porcherie che la nostra civiltà più epicurea (per non dire altro) così vicina anche in termini geografici porterà senza alcun pudore.
    Dopo Chanel McDonald’s. E dopo Dior (non vorrete perdere la Mica Arganaraz che sfila nelle sale severe del Museo della Rivoluzione fra una statua del Che, Fidel e Cienfuegos e un’aerea loggiata aperta sul patio interno?) Hard Rock Café?
    Che inebriante prospettiva!

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