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Stefano Pistolini ci svela il suo Fuoco Sacro

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Giornalista, autore, sceneggiatore, saggista, conduttore, videomaker, Stefano Pistolini si confronta ora con il romanzo. In esclusiva per Artslife “Fuoco Sacro”

«C’è qualcosa d’instabile che s’agita dentro di me, qualcosa che viene dal passato, da quelle convinzioni istintive di cui ho fatto indigestione nell’adolescenza, fino a tradurle nel primo barlume di una filosofia di vita. Una vita che immaginavo di corsa, travolgente e senza compromessi, votata a qualcosa per cui valesse la pena di battersi […]Le cose poi sono andate diversamente e in modo molto meno travolgente di quanto potessi credere.»fuoco-sacro-stefano-pistolini

I chilometri che separano Milano da Roma, diventano la metafora di una lontananza, di una separazione inspiegabile. Una ferita che gli anni non hanno curato. Domande che hanno bisogno di una risposta. Tra inciampi della memoria e assalti di emozioni mai dimenticate, si dipana la ricerca di un uomo, nel tentativo di ricolmare la distanza tra quello che sognava di essere e il sè che è diventato. Di spiegarsi le ragioni di una frattura.

Ritrovare Marco diventa così un bisogno insopprimibile, quasi un’ossessione. Il fuoco sacro che spinge il protagonista a ripercorrere all’indietro la sua storia personale, nei luoghi e nei frammenti nascosti da un’inconsapevole rimozione.

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Milano, anni ’60 – foto di Davide Mengacci

I primi anni ’70, Milano con la sua nebbia densa e i palazzoni tristi delle periferie. il Krautrock e la Woodstock del Ticino. La musica di Connie Plank, Joe Cocker e Nick Drake. Ma anche le droghe, gli acidi, la voglia di scappare altrove e lo storico Carta Vetrata, a Bollate. Insieme alla Roma sognata e finalmente ritrovata, i pomeriggi in strada, i viaggi in autostop e i tanti sogni, nel fuoco dell’adolescenza e di una generazione inquieta.Nick-Drake-ph Violexita Un racconto che scorre fluido come un film in cui è immediato riconoscersi come in quella vecchia foto che conserviamo nel cassetto.

Al centro Stefano e Marco inseparabili amici e complici e Marta e Roberta insieme a loro. Il rito quasi sacro nei vecchi negozi di dischi in vinile, dove per avere l’ultima novità a stelle e strisce o londinese, si sperimentava la virtù dell’attesa. E la Milano contemporanea lontana anni luce da quella di allora, in contrappunto a Roma, due mondi lontani e profondamente diversi nei quali si aggira come un detective di sentimenti il protagonista di “Fuoco Sacro”, il primo romanzo di Stefano Pistolini, edito da Elliot.

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“Il fatto è che io voglio trovare Marco non per rievocare i trascorsi o riallacciare dei rapporti morti e sepolti. Lo vorrei trovare senza parlargli. Guardare com’è, vederlo con gli occhi di oggi, qualsiasi sia la fine che abbia fatto, e senza commentare. Guardando lui, credo che vedrei me. Non quello che la mattina osservo nello specchio del bagno. Vedrei me attraverso di lui: definitivo, statico, senza abbellimenti, moine o sovrastrutture. Per ciò che è e per ciò che sono. Che siamo.”

Stefano Pistolini, il protagonista di ‘Fuoco Sacro’ è un uomo che vive a Roma ma è cresciuto a Milano. Ha giocato a pallacanestro e ne è rimasto appassionato. Lavora tra Roma e Milano, aveva 17 anni nei primi anni ’70 e si chiama Stefano. Insomma sei proprio tu.

«In realtà c’è dentro di tutto. Tante cose fanno parte della mia esperienza diretta ma è anche una grande mescola in cui ci sono tutti e tutto».

Sei giornalista, autore televisivo (ora per Rai5) e radiofonico, sceneggiatore e videomaker. Saggista, storico conduttore di tante trasmissioni, tra cui le indimenticabili  Jefferson e Jefferson Ming (Radio24), che tanti di noi hanno amato. Come mai questo primo romanzo?  E’ la cifra della tua generazione lo smarrimento e il bisogno di ritrovarsi?

«Penso che quando si diventa grandi lo smarrimento c’è comunque, a prescindere dalle generazioni e lo trovo anche un sentimento sano. Il libro nasce un po’ da questo. Era un momento particolare per me, di perdita di significato nel lavoro, di routine. In realtà questo libro è nato dalla noia».

E scriverlo ti ha aiutato ?
«La cosa interessante per me è che scrivere questo libro è stato un po’ come tornare a scuola. Scrivere un romanzo è una cosa complicata, anche per chi di mestiere scrive, come me. La cosa che mi ha entusiasmato è stata proprio questa progressiva presa di coscienza che per scriverlo dovevo ricominciare a imparare delle cose. Perchè quando faccio il mio lavoro di autore o di giornalista, seguo un metodo ormai standardizzato, invece in questo caso ho dovuto imparare qualcosa di nuovo. E’ stata una bellissima esperienza».

Fin dalle prime pagine ci si accorge che questo racconto è scritto come una sceneggiatura

«Sì è vero, me l’hanno già fatto notare altre persone e mi hanno già chiesto se sarei disponibile per una trasposizione. Probabilmente è l’abitudine a scrivere per immagini. In realtà mentre lo scrivevo non era mia intenzione, altrimenti avrei scritto direttamente una sceneggiatura. Il fatto che si possa pensare di farne una versione in tv o al cinema mi fa piacere e mi piacerebbe se lo realizzassero altre persone, per vedere come lo interpretano, ma non vorrei essere io a farlo».

Sei nato a Roma, cresciuto a Milano, poi hai vissuto negli Stati Uniti e infine ti sei stabilito a Roma. Ci si sente un po’ alieni ovunque quando si cresce così?

«Sì per me è così. In realtà non so se dipende più dal mio carattere o dai contesti che ho vissuto. Sono stato a lungo sia a Roma che a Milano, così come all’estero, ma un vero senso di appartenenza ad una città non l’ho mai provato».stefano-pistolini-fuoco-sacro

Ex giocatore di pallacanestro e ancora grande appassionato.
«La pallacanestro è stata importantissima per me. E’ stata un aiuto determinante per aprirmi alla socialità. Senza la pallacanestro non so davvero come sarebbero andate le cose. Lì ho incontrato i miei amici ed è rimasta una costante della mia vita. Mio figlio gioca e ancora oggi i momenti più divertenti e sereni sono quelli in cui vado a vedere le partite dei ragazzini. Non quelle delle grandi squadre di serie A o dell’NBA, ma quelle dei ragazzini che giocano con passione e cuore».

Com’è stato crescere in una scuola di Gesuiti, a Milano, alla fine degli anni ’60?
«Beh, andare a scuola dai Gesuiti è un po’ come un marchio a fuoco.  Catapultato da Roma a Milano a 7 anni, arrivai all’Istituto Leone XIII e a tutt’oggi non so se sia stata una seconda prova o una salvezza. Di sicuro era una scuola che assomigliava in qualche modo a un’accademia militare, un’ottima scuola, dove si studiava, ma soprattutto ti veniva forgiato il carattere e il modo di essere. Ai miei tempi era una scuola solo maschile, gli allievi erano i figli della migliore borghesia milanese, in quel contesto un ragazzino romano era visto abbastanza come un alieno. Questo certamente avrà rafforzato il mio istinto di difesa ma allo stesso tempo mi ha formato come individuo. E’ un mondo strano dal quale esci avendo acquisito inconsapevolmente un certo modo di parlare, di muoverti di relazionarti. E’ il contesto di quegli anni a Milano, di quei ragazzi che eravamo e di tutto ciò che ci girava intorno che racconto nel mio libro.»

Stefano, dal tuo saggio “Gli sprecati”, passando per “Finestre Rotte” (il docu-film su Francesco De Gregori presentato a Venezia nel 2012) fino a “Fuoco Sacro” e al tuo recente docu-film su Milano (PASM! con Ranuccio Sodi) sembra di poter rintracciare uno stesso filo conduttore, ovvero la voglia di ricostruire e indagare l’evoluzione della nostra società dagli anni 60 in poi.

«E’ quello che veramente mi appassiona, da sempre. Andare a ricercare come un film, un libro, o un qualsiasi prodotto culturale vengono percepiti, suscitano reazioni, colpiscono la gente normale, le generazioni, i gruppi sociali, trasformandosi in cultura popolare. Quello che mi interessa è osservare come certi oggetti artistici o culturali improvvisamente deflagrano e si trasformano in vita, appropriazione e stile di vita delle persone comuni.»

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Milano, Parco Lambro 1976-foto Dino Fracchia

“[…]Mentre le propaggini di Milano cominciano a popolare il finestrino della vecchia Mercedes, mi domando se sono davvero sicuro d’essere la stessa persona che è passata di qui in una notte di tanti anni fa. Cosa mi lega a quel ragazzo? Qual è il punto in comune?”

Com’è oggi il tuo rapporto con Milano?
«Per lungo tempo l’ho vissuta come un luogo totalmente estraneo. Per lavoro mi sono ritrovato a fare la spola tra Roma e Milano ma l’ho vissuta come un luogo che non mi apparteneva. Questo fino a 4 -5 anni fa quando ho iniziato a lavorare per Rai5, subito dopo la sua creazione e i miei soggiorni a Milano sono diventati più lunghi e frequenti. E’ stato allora che ho cominciato a riscoprire i luoghi di questa città, completamente modificata rispetto a quella che avevo lasciato, a riallacciare relazioni.»

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foto pcaselli©

“Giusto lì di fronte, magnifiche ed elettriche, si stagliano le nuove torri di luce di Porta Garibaldi. La Milano del presente, che si congratula con me per essere arrivato vivo fino a questo punto, nel cuore del XXI secolo, reduce dalle campagne fisiche e spirituali del XX. […]ho una passione per questi nuovi grattacieli, perché il loro salire nel cielo della città è coinciso col mio ritorno, dopo tanti anni d’assenza. Sono qui, mi ha sussurrato Milano in un orecchio, ti ho aspettato e ti faccio volentieri entrare. Ma attento: non sono più quella di una volta.”

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foto di Davide Mengacci

«Il trasformismo è nella natura di Milano. Nella Milano della mia infanzia c’era la nebbia che ti avvolgeva come un lenzuolo, oggi è solo un ricordo. In compenso ora ci sono le zanzare. Ma c’è anche una trasformazione profonda nel carattere della città, che purtroppo mi pare naufragata tristemente in questa avventura dell’Expo. La caratterialità di Milano tutta in divenire, tutta concentrata in questa forma forse un po’ nevrotica di ottimismo, di slancio. Quelle torri e quei grattacieli che continuano a costruire nei quali forse non abiterà mai nessuno però Milano è questa straordinaria natura in divenire. Se la paragoni a Roma che invece ora è immobile e stagnante, Milano è un vero antidoto.»

“[…]Roma è la mia città. Ma questa città adesso mi soffoca con la sua immobilità, coi suoi timori, con la sua rassegnazione.[…] Roma è piatta e stagnante, sorvegliata e diffidente. È come se fosse tutta un teatro di Cinecittà. Rimasto sfitto, ma ancora fastoso negli arredi, che pure già si stanno deteriorando. Tra i quali io mi aggiro. Senza toccare niente.”

Ho l’impressione che molti di quelli della generazione degli anni ’50-’60 siano rimasti vittime di una sorta di stordimento e incertezza. Pensi che questi contesti dicotomici della realtà italiana vi abbiano influenzato in qualche modo?
«Sì è vero, siamo molto diversi rispetto ai giovani attuali, così decisi e sistematici. La nostra generazione viveva di continue oscillazioni, come racconto nel mio libro, ma questo dipendeva anche dal nostro rapporto con il senso di colpa, con il pentimento, con il ‘farsi carico di’, che portava a volersi continuamente perfezionare, rivedere le proprie posizioni. Tutte cose che non andavano d’accordo con il farsi una carriera, perseguire chiaramente un obiettivo. Io ad esempio ho scelto di mandare i miei figli a studiare all’estero perchè noi abbiamo creato una situazione in questo Paese che non è positiva da vivere per i ragazzi.»

Anche tu pensi di lasciare l’Italia?

«Io ormai ci sono dentro, sto qui, prendere le distanze a questa età è una scelta da pensionati che non mi appartiene. Probabilmente starei meglio altrove ma voglio vedere come va a finire e se posso fare qualcosa la faccio».

E quello che fai ti piace?

«Quello che faccio mi piace poco perchè purtroppo c’è una distanza troppo grande tra quello che vorrei fare e quello che l’industria culturale attuale mi permette di fare. Mi piacerebbe poter realizzare dei progetti seri. Nella mia esperienza di autore televisivo, fino ad oggi avrò scritto circa 25 programmi e nel 90% dei casi si è fatto sempre qualcosa di molto lontano da quello che sarebbe stato bello o si sarebbe potuto fare. E la ragione innanzitutto è la mancanza di competenza di coloro che gestiscono le strutture sia pubbliche che private. Un fatto atroce e inspiegabile. Non mi spiego perchè in Italia non esiste una radio dignitosa, non capisco perchè non c’è una programmazione culturale televisiva dignitosa nè giornali soddisfacenti. E’ uno spazio che potrebbero gestire tante persone preparate. Poi c’è la questione economica. Ti faccio l’esempio di Sky Art che in realtà non è altro che un’antenna e non un centro di produzione. Un canale che si propone come diffusore di cultura, in realtà è lì a disposizione solo per trasmettere ciò che qualcun altro ha trovato il modo di realizzare e produrre trovando sponsor, finanziamenti, etc etc. seguendo logiche infernali. Il percorso naturale, quello del mecenatismo del Rinascimento, che permetteva a chi aveva un’idea di realizzarla perchè chi aveva i mezzi investiva nel prodotto culturale è completamente estinto.»

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Stefano Pistolini con Carlo Massarini negli studi di Rai5

E in questo contesto tu stai seguendo dei progetti o sei ‘in attesa di’?

«Io proseguo nel mio lavoro a Rai5, collaboro con alcune testate e poi ho alcuni progetti che non riescono a camminare. Sto lavorando ad esempio ad un progetto su Berlino con un altro autore, ma trovare i soldi per realizzarlo sembra un’impresa impossibile. Con il gruppo di autori con cui lavoro normalmente volevamo seguire le prossime elezioni americane, che saranno bellissime, come facemmo con Jefferson nel 2008, ma a quanto sembra non interessa a nessuno.»

Nel tuo libro ad un certo punto il protagonista dice “la mia via di fuga si chiama noncuranza. Mi rifugio nello scetticismo”. E’ qualcosa che ti appartiene?

«Beh, nella situazione attuale del nostro Paese la noncuranza è l’unica maniera per sopravvivere. Voglio dire, il fatto che si vive in un Paese in cui qualsiasi uomo pubblico, o la maggior parte di loro abbia scheletri nell’armadio non è qualcosa di naturale nè di accettabile. Oppure nelle relazioni sociali, il fatto che in Italia il più importante non saluti o non risponda a chi è meno importante di lui è un altro esempio. L’unico modo per convivere con questa realtà è distaccarsi. Ci vuole un po’ di fatalismo e una certa capacità di elaborazione interiore, altrimenti si soffre. Anche troppo. In buona parte è anche il mio carattere che mi porta a essere un po’ distaccato. Le cose che vedo, come ad esempio i film degli altri in generale mi piacciono, ma in fondo non riesco a farmi coinvolgere fino in fondo».

A proposito dei film degli altri. Hai visto i film italiani che sono andati a Cannes? Che ne pensi?

«Dunque da spettatore ti dico che ho trovato il film di Moretti eccessivamente ‘morettiano’.  ‘Mia madre’ è un film dignitoso, con una grande prova della Buy ma mi pare che Nanni, a cui voglio bene, abbia fatto un film che mostra come abbia esaurito un filone e debba trovare qualcosa di nuovo da raccontare. Garrone mi diverte perchè è un personaggio strano, un animale controverso e indefinibile che ha realizzato un progetto folle: ha preso spunto da un libro sconosciuto, ha utilizzato attori americani in un’opera che richiama il Decamerone, ha vissuto un orgasmo visuale con delle location formidabili, però è un film con un grande respiro. Secondo me è troppo lungo però in un cinema italiano povero di novità il film di Garrone mi sembra un segno di vita che mi ha fatto piacere. Il film di Sorrentino  mi è piaciuto molto. L’ho trovato citazionista, a tratti provinciale, come sempre,  però il suo senso estetico, gli attori ben diretti, il gusto di utilizzare la musica come narrazione, ne fanno davvero un bel film. Aggiungo però che anche lui non ha ancora trovato la maniera di chiudere un film e va a scegliere sempre la chiusa più banale».

Qualcuno ha detto che il ‘fuoco sacro’ delle nostre vite è fatto da quelle cose di noi che non sono mai cambiate. Un ancora ideale a cui aggrapparsi quando tutto vacilla, perchè sono la parte più vera di noi. Quali sono i tuoi fuochi sacri?

«Come racconto nel mio libro per me sono alcune persone, non nella loro presenza o attualità nell’oggi, ma nell’esperienza che ne ho fatto. La sfera rappresentativa a cui guardo nei momenti difficili non sono tanto le persone in se, quanto quello che abbiamo vissuto insieme. Sono i momenti in cui abbiamo tracciato il nostro passaggio nella vita. Probabilmente in fondo questo libro l’ho scritto proprio per lasciare un segno, anche se piccolissimo, dell’importanza che hanno avuto per me alcune relazioni, anche se poi si sono esaurite. D’altra parte le cose non durano. Non ho altri rifugi, nè religiosi, nè  spirituali».

Fuoco Sacro di Stefano Pistolini

Elliot editore
pp. 288
Aprile 2015
ISBN 9788861928602

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